Opus tessellatum 10. Mestieri e zodiaco

di Antonio Devicienti

(Anche Vittorio Bodini riprende in una sua famosa terzina l’assai conosciuto detto: è qui che i salentini dopo morti / fanno ritorno / col cappello in testa e il poeta si riferisce, ovviamente, a Santa Maria di Leuca de Finibus Terrae.

Eppure credo che lo Zodiaco coi mestieri nella Cattedrale di Otranto possa essere importante tappa del pellegrinaggio, di matrice tutta greco antica, di chi, dopo la morte, non sa ancora  staccarsi dalla terra e conserva un qualche ostinato dialogo coi vivi; è per questo, forse, che la scrittura può udire le voci di chi partecipò alle lotte contadine dell’Arneo e di chi, transitando per la Cattedrale idruntina, nei medaglioni dello Zodiaco incontra i propri antenati, plebe sfruttata e maltrattata).

«Nu mme le scerru, me le ricordo ancora le biciclette incendiate dai carabinieri per ordine dei padroni, me la ricordo la fatica, me li ricordo i figli emigrare mentre io restavo».

«Avevamo spietrato i latifondi, fianco a fianco, compagni di fatica, volevamo lavoro e giustizia».

«Abbiamo dormito sotto le stelle, fianco a fianco, fratelli di speranza»..

«Nun èrame rraggiàti, bbulìame giustizia».

«Sì, è vero, non abbiamo mai voluto fare del male, ma capivamo che dovevamo muoverci per noi e per i nostri figli».

«Gli avvocati ci difesero gratis al processo».

«Biciclette e coperte, zappe e picconi: occupare non voleva dire sederci ‘nterra e spettare – ma fatiare dissodare, ripulire, sarchiare, setacciare, portare acqua».

«Le terre le abbiamo avute, coltivate, accudite – ma tanta gente è dovuta comunque partire: alla Svizzera, alla Germania, allu Belgiu…».

«Ci siamo mossi da tutti i paesi dell’Arneo, furesi analfabeti, ma che sapevano che cos’è dignità».

«Mi ricordo: in silenzio siamo andati sui latifondi, abbiamo appoggiato la bicicletta al pietrone di confine, sopra ci abbiamo messo la giacca e la coperta, ci siamo messi a spietrare».

«La peṭra pe lle case, la peṭra te la fatìa, la peṭra era speranza».

«Hanno mandato puru nn’aériu per controllarci dall’aria, i carabinieri lanciavano lacrimogeni e caricavano – figli di furesi puru iḍḍi».

«O contadini che misero la firma nei carabinieri».

«Compagni dell’Arneo, era bello stare insieme attorno al fuoco: abbiamo resisitito e sperato, abbiamo avuto coraggio».

«Pensavo a mia madre tabacchina, a mio padre zappatore, a mio fratello disperso in Russia».

«Un fiasco di vino faceva il giro di tutti quelli messi intorno al fuoco la sera dopo la fatica».

«Ci hanno caricati con i manganelli, come sotto il Fascio».

«Avevamo paura e coraggio. Avevamo deciso».

«Bruciarono le coperte e le biciclette, rraggiàti comu érane».

«Noi no, non li abbiamo odiati, ma ci facevano pena: gente di Potenza, di Avellino, di Foggia…».

«Al processo gli avvocati spiegarono bene le cose».

«Nell’Arneo facemmo bene le cose».

«E mmoi? mmoi ca visciu l’àrbuli manciàti, distrutti, ‘ccìsi?».

«Mmoi ète tempu cu ‘ncigna n’auṭra speranza».

Questa voce è stata pubblicata in I mille e un racconto e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *