Cultura salentina. Il lettore desidera conoscere la cultura salentina, in particolare del Basso Salento, per intenderci, da Lecce in giù, della seconda metà del XX secolo? Legga i Ritratti salentini e gallipolini scritti da Augusto Benemeglio (classe 1943) e pubblicati nel Quaderno n. 25 della collana intitolata I poeti de “L’Uomo e il Mare”, Gallipoli 2008, fondata dallo stesso Benemeglio e diretta da Maurizio Nocera, e si troverà nel cuore pulsante di quella cultura, rivisitata nei suoi principali protagonisti. Si tratta di una raccolta di 46 brani, della lunghezza media d’un articolo di pagina culturale di giornale, medaglioni di scrittori, poeti, uomini di teatro, pittori, scultori, ecc., ed anche recensioni, e note di varia umanità, che si suppone siano stati scritti in diverse occasioni nel corso degli ultimi anni (ma purtroppo ciò non è detto, non si sa se per favorire una ricezione unitaria del libro da parte del lettore o per distrazione dell’autore), con una Prefazione di Maurizio Nocera che apre il volume e una Bibliografia di Augusto “Buono Libero” Benemeglio (fino al 2004) che lo chiude. C’è Girolamo Comi e Vittorio Bodini, insomma il Salento della vulgata poetica, ma c’è anche Carmelo Bene e Eugenio Barba, Vittorio Pagano e Salvatore Toma, Vittore Fiore e Ennio Bonea, Luigi Scorrano e Tonino Bello, Michele Pierri e Raffaele Carrieri, Ercole Ugo D’Andrea e Edoardo De Candia, e l’elenco potrebbe continuare a lungo, a testimonianza di una coerente predilezione generazionale dell’autore. Preferisco invece dare al lettore qualche assaggio della disposizione critica di Benemeglio e del suo modo di accostarsi agli autori che studia. “Girolamo Comi non era certamente un poeta originale, ancorché strombazzato dall’Osservatore Romano e da qualche suo allievo” (p. 49); Maria Corti avrebbe potuto astenersi dal ricevere l’ “inutilissimo Premio Salento” (correva l’anno 2000) nel porto di Gallipoli per non essere “trattata a pesci in faccia da un’affascinante presentatrice dell’ovvio e della banalità qual è Milly Carlucci” (p. 51); “il mio amico Gigi Scorrano… sempre immerso nelle sudate carte, come un Giacomino Leopardi da Tuglie” (p. 66); “Maurizio Nocera … l’amico ideale…, un uomo che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo…” (p. 117); insomma, Benemeglio ne ha per tutti, sempre con misura e con cognizione di causa, e dispiega una scrittura che riunisce in sé le doti della semplicità e della precisione, tanto che di lui potremmo ripetere quello che egli scrive a proposito di “un cronista di lungo corso de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Giuseppe Albahari: “Scrive esattamente quel che pensa e lo fa con la sensibilità e l’amore di uno che crede in quel che fa… con una scrittura precisa, efficace, diretta, immediata, intessuta qua e là di sprazzi di luce, di momenti di lirismo…” (p. 134). Un lirismo, quello di Benemeglio, che si manifesta soprattutto quando l’autore scrive dell’amata Gallipoli, città “anarchica in tutto, per antica vocazione; qui di Bakunin e di Kropotkin ce ne sono in quantità industriale, praticamente un’intera popolazione che ignora leggi, regolamenti, ordinanze, divieti ecc. e stabilisce arbitrariamente come comportarsi. E questa anarchia non risparmia nulla e nessuno…” (p. 176); eppure, la Gallipoli di Benemeglio, vista “da Settentrione, dall’alto della serra di Nardò… è un raggio di luce disteso sul mare”, mentre la “passeggiata panoramica” da basso verso il porto riserva la visione dei pescatori e degli artigiani operosi, sempre rimpianti (si leggano le pp. 107-110, vero e proprio “inno alla manualità” (p. 109) artigiana), anche alla luce del mito antico: “Mi sentivo come un Odisseo che riapproda alla sua Itaca definitiva…” (p. 179). Gallipoli e il suo Scoglio, “su cui abitava la Venere dello Jonio” quando “sorse la “città bella” circa duemilasettecento anni fa” (p. 175). Che dire? Ognuno ha il diritto di sognare – e far sognare – e di fare della mitologia, purché poi ritorni alla realtà. Benemeglio ha di questi andirivieni e forse proprio in ciò è il ritmo della prosa e il fascino dei suoi Ritratti.
Studi ellenistici. Quando si parla della cultura che i nostri paesi esprimono, spesso ci si dimentica che essa è elaborata anche altrove, in luoghi che da giovani molti nostri concittadini hanno raggiunto e dove per così dire sono divenuti fecondi. E sarebbe interessante indagare – il che esula dallo scopo di questa segnalazione – quanta parte della loro giovinezza, intesa come cultura giovanile elaborata nei paesi di origine, è in quella loro fecondità; il che porterebbe ad apprendere il segreto più riposto dei cosiddetti scambi culturali tra terre diverse e apparentemente non comunicanti.
Studi ellenistici è una collana che Biagio Virgilio, galatinese trapiantato a Pisa sin da giovane, ora professore ordinario di Storia Greca e di Epigrafia Greca presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, ha fondato e dirige dal 1984. Come si comprende dal titolo, il campo d’indagine studiato è l’Ellenismo, termine con cui si designa il periodo storico nel quale, dopo il tramonto delle poleis e le conquiste in Oriente di Alessandro Magno, la civiltà greca si diffuse nel Mediterraneo e nell’Asia, fino alle sponde dell’Indo, mescolandosi e fondendosi con le numerosissime culture autoctone.
Ho tra le mani Studi ellenistici XX, a cura di Biagio Virgilio, Pisa – Roma, Fabrizio Serra Editore, 2008, pp. 553. Il volume accoglie venti contributi di autori di diversa nazionalità, cui è concesso di adoperare la propria lingua madre: italiano, francese e inglese: Emilio Gabba, Christian Habicht, Bruno Helly, Federicomaria Muccioli, Pierre Briant, Manuela Mari, Pierre-Louis Gatier, Raymond Descat, Isabelle Pernin, Biagio Virgilio, Lucio Troiani, John Ma, Roberto Mazzucchi, Andrea Primo, Gianluca Casa, Francis X. Ryan, Roberto Sciandra, Domitilla Campanile, Patrick Robiano, Omar Coloru. Tra tutti, segnalo il saggio che Biagio Virgilio dedica a Polibio, dal titolo Polibio, il mondo ellenistico e Roma (pp. 315-345), autore letto da una “prospettiva prevalentemente ellenistica”, da cui emerge “un Polibio per così dire tridimensionale che affida ai tre principali soggetti politici delle Storie: Roma, la Lega Achea e i regni ellenistici, la funzione di pilastri e di pietre di paragone del suo sistema di valori e di giudizi storico-politici” (p. 315). Nel saggio si possono leggere considerazioni politiche che hanno molto di attuale. Si pensi, per fare solo un esempio, alla definizione che Polibio dà della democrazia, che “non è quella in cui la massa … è padrona di fare tutto quello che vuole e prospetta; al contrario… è un regime che superando i limiti dell’oligarchia, ha a cuore gli interessi comuni ed è fondato al massimo grado su isegoria e parrhesia [uguaglianza e libertà di parola]…” sicché, deduciamo, venendo meno questi due presupposti, la democrazia scompare. Ed infatti, continua Virgilio, “il progressivo svilimento di questi principi trasforma la democrazia in violenza e dominio della forza…” (p. 324).
A margine di questi discorsi, vale la pena di segnalare che una parte consistente della collana in questione è consultabile presso la Biblioteca “Pietro Siciliani”, e questo grazie alla grande liberalità dello stesso Biagio Virgilio che – spinto forse anche da una certa comprensibile nostalgia – ha donato i vari numeri della collana man mano che venivano pubblicati, come si evince dal sito della Biblioteca www.bibliowin.it/galatina.
Così, noi dobbiamo ringraziare chi è partito a vent’anni e non è più tornato, se non per ritrovare i propri cari e passarvi le vacanze, perché ha anch’egli contribuito a suo modo, e forse più di tanti rimasti, alla nostra vita e cultura cittadina.
La bellezza del mondo secondo Ferdinando Boero. “Ho fatto diverse recensioni di libri e, nelle recensioni, uno deve dire in poche parole quale sia il messaggio del libro. Se dovessi fare la stessa operazione per quel che ho scritto direi che il messaggio è che noi viviamo in un mondo bellissimo e che siamo bene attrezzati, sensorialmente, per apprezzare la bellezza”. Con queste sintetiche parole Ferdinando Boero “recensisce” (p. 157), in conclusione, il suo stesso libro Ecologia della bellezza. I gusti della natura, Besa, Nardò 2007, pp. 158 (n. 11 della collana “Astrolabio”).
Boero è professore dell’Università del Salento
[oggi insegna presso l’Università di Napoli]
, insegna Zoologia e Biologia marina presso la facoltà di Scienze, eppure il suo volume non presenta le consuete asperità delle pubblicazioni universitarie: note, citazioni dotte, linguaggio spesso incomprensibile per eccesso di specialismo, bibliografia, ecc., ed evidentemente è destinato ad un pubblico ben diverso da quello degli universitari (studenti e colleghi docenti). Chiunque può trarre profitto dalla lettura scorrevole e piana, ma non per questo meno dotta, del libro, che ha al suo centro, come scrive lo stesso Boero nella breve autorecensione, la bellezza del mondo. Sulla soglia del volume, lo scrittore dichiara: “Ecco, questo libro nasce precisamente da questo problema: è possibile una scienza della bellezza che non sia marcatamente soggettiva e che non possa essere in qualche modo valutabile anche da esseri aridi come gli scienziati?” (p. 13). Il presupposto del discorso è che noi esseri umani “siamo capaci di fare cose belle ma oggi siamo sempre più inclini a farne di orrende. Se non altro perché siamo troppi e produciamo un impatto devastante anche per il solo motivo di esistere” (p. 26). Il lettore lo avrà capito: Boero cerca di utilizzare la scienza per definire qualcosa che corrisponda alla nozione di “bello”. Soltanto dopo aver individuato su basi scientifiche ciò che è bello, lo si potrà convenientemente salvaguardare, per es. in un parco naturale. Oggi è possibile una simile operazione, perché gli strumenti per farla ci sono tutti. Sentite questa esaltazione del paradigma scientifico: “La scienza unifica le culture perché è la sola cultura universale. Non ha vincoli regionali e non ha connotazioni storiche. Le leggi della termodinamica restano le stesse fin dal tempo della loro formulazione, e resteranno le stesse. Così come la teoria cellulare (…). Se sarà dimenticata, in un’età di oscurantismo, sarà riscoperta esattamente come è ora, in una nuova epoca illuminata. Mentre, se si perderanno le tracce della cultura attuale, nessuno riscriverà la Divina Commedia di Dante, o Sofa di Frank Zappa.” (p. 48). Da una parte, dunque, Boero avverte la specificità e unicità culturale dei prodotti della civiltà (Dante, Zappa), da salvaguardare, dall’altra ha per certo che solo la scienza può far ciò, rivestendo un carattere atemporale e universale.
Qua e là nel volume si avverte una certa nostalgia del tempo andato, il tempo dell’infanzia e della giovinezza, che spesso fa capolino nella pagina come quel tempo irrecuperabile, ma in cui si è venuta formando e consolidando la nostra personalità in un mondo non ancora sporcato dalla spazzatura. Molto interessante è il paragrafo in cui Boero commenta il comandamento Non fornicare, oggetto di molti equivoci in età giovanile e che ora lo studioso propone come imperativo morale per tutti coloro che operano nel campo della scienza, e non solo: “Non fornicare significa non mescolare quel che la natura ha separato, o, ancora, non fare accoppiamenti contro natura, che poi è la stessa cosa” (p. 104). La proposta che nasce da queste pagine, dunque, è di ben altra apertura rispetto al mondo, che ci riserva e ci riserverà sempre delle sorprese. Sulla scorta di Carlos Castaneda, letto in gioventù, Boero riprende la figura dello stregone (A scuola dallo stregone è un titolo di Castaneda) e del suo particolare sguardo sul mondo: “Il vero stregone è chi riesce a vedere i fili d’erba, chi riesce a percepire quello che altri non vedono. Non vede cose soprannaturali, vede l’apparentemente banale che ci circonda. E’ lì che vivono le cose fuori di noi, le cose che alla fine, nella loro apparente insignificanza, condizionano la nostra vita. Chi riesce a vedere queste cose vede di più, sa di più…” (p. 133). Non c’è bisogno di droghe per ottenere una nuova visione del mondo, ma molta applicazione e dedizione. Il messaggio è dunque questo: che la bellezza c’è, ma non basta guardare, occorre sapersi educare a vederla.