di Adele Errico
“Laggiù soffia! Laggiù soffia! La gobba come una montagna di neve! È Moby Dick!”.
Pallida come la neve, voltola per i mari selvaggi la sua massa simile a un’isola, Moby Dick, la Balena. Nuota e si dimena per mare, fuggendo e sfidando la furia di colui che per vendetta la insegue, perché la Balena si è portata con sé un pezzo di lui, della sua carne, della sua gamba: il capitano Achab che, tetro e tirannico, guida il suo equipaggio, come diavolo a comando di una legione di dannati, nella spietata caccia alla balena.
“Moby Dick” di Melville non racconta di un’avventura per mare. “Moby Dick” è il mare. Con i suoi gorghi e le sue onde e i suoi mostri. È un’odissea di furia e di lotta, di orrore e meraviglia ricamata attorno alla Balena bianca che, bellissima e mostruosa, conduce alla follia Achab, ossessionato dal disperato tentativo di ucciderla. Ma Moby Dick non lo cerca, “sei tu, tu che insensato cerchi lei”, urla Starbuck ad Achab nel delirio del terzo giorno di caccia sventurata. E, in fondo, Achab non insegue solo la Balena. Non insegue, forse, un sanguigno desiderio di conoscenza? Non insegue, forse, bruciante di passione, l’ignoto che si nasconde tra l’arrotolarsi delle onde? Non rincorre, magari, la Balena nell’illusione di sconfiggere, non solo lei, ma tutto il Male che incarna? Achab, “simile a un Dio”, ignora deliberatamente la voce della ragione in nome del desiderio di vendetta che, però, cela molto altro. Cela l’incapacità di restare uomo. Soffocato dalla sua “infatuazione d’odio”, magari Achab non odia la Balena, ma la invidia. Invidia la sua maestosità e la sua capacità di sfiorare gli abissi più profondi del mare che a lui sempre resteranno ignoti. Invidia la possibilità di conoscere i segreti più oscuri e paurosi di quel luogo che, per Achab, resterà sempre un mucchio di onde azzurre. Sempre superficie, mai abisso.