1) L’andamento dello spread è fortemente influenzato dall’attesa del rialzo dei tassi di interesse che verrà effettuato dalla BCE il prossimo 21 luglio. In linea generale, questa misura dovrebbe penalizzare maggiormente i Paesi periferici, giacché sono quelli più indebitati, facendo crescere il premio per il rischio sui titoli di Stato. Le dimissioni di Draghi sono in tal senso irrilevanti.
2) Il cambio di Governo in Italia è previsto da tempo per il 2023 ed è verosimilmente già scontato nelle attuali decisioni di acquisto e vendita di titoli sui mercati finanziari. D’altra parte, anche questa crisi non giunge del tutto inattesa e, come è noto, gli investitori realizzano profitti sulla base delle loro aspettative, date le informazioni di cui dispongono.
3) L’esposizione del debito italiano non è quella del 2011 e non desta preoccupazione la sua solvibilità. Ciò indipendentemente dall’operato del Governo Draghi. Non si è quindi in presenza di un’attesa di crisi del debito sovrano. D’altra parte, non sembra essere stato sufficiente l’annuncio, da parte della BCE, della creazione di uno “scudo anti-spread” – finalizzato a “combattere i rischi di frammentazione dell’eurozona” – per attenuare l’entità della speculazione. La Presidente della BCE, Christine Lagarde ha ritenuto, infatti, di non dover chiarire i dettagli tecnici con i quali verrà realizzato lo scudo e da ciò è derivata la scarsa credibilità dell’annuncio.
L’esperienza del governo Monti ha insegnato che non vi è alcuna correlazione fra credibilità del Governo e andamento dello spread e neppure fra “riforme” e spread. Agli investitori interessa, infatti, che uno Stato sia in grado di ripagare il debito maggiorato degli interessi e – come la teoria economica insegna – questa condizione viene soddisfatta quando il tasso di crescita è maggiore del tasso di interesse reale. Ciò è in larga misura indipendente dalle politiche che vengono realizzate per generare crescita: le riforme di segno liberista non sono necessarie a tal fine. Esse piacciono ai mercati solo nella misura in cui assicurano la solvibilità di uno Stato. Se, come è accaduto in Italia negli ultimi decenni, dosi massicce di liberismo non hanno prodotto crescita, non ci si può attendere che la loro reiterazione riduca lo spread.
La ricerca scientifica è giunta alla conclusione che gli spread non necessariamente si riducono al ridursi del debito pubblico. Può anzi accadere che lo spread aumenti in regime di austerità. Ciò a ragione del fatto che la riduzione della spesa pubblica e l’aumento della tassazione riduce il tasso di crescita e alimenta, negli investitori, la convinzione (corretta) che le entrate fiscali siano di entità via via insufficiente per ripagare il debito. In altri termini, come si fatto si è verificato nel 2012, l’austerità produce recessione e la recessione alimenta la speculazione. Vi è sono altri due fattori da considerare, che attengono al saldo dei conti con l’estero e alle politiche monetarie. Nel primo caso, la dinamica delle esportazioni nette influisce sui differenziali di rendimento dal momento che influisce sull’andamento del Pil e dunque sul rapporto debito/Pil. Coeteris paribus, avere una bilancia commerciale favorevole aiuta a ridurre l’onere degli interessi sul debito. Nel secondo caso, bisogna aver chiaro che è la disponibilità del banchiere centrale ad acquistare/vendere titoli nei mercati finanziari (come è stato il quantitative easing) a ridurre lo spread, come la storia recente dell’economia italiana inequivocabilmente dimostra.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 26 luglio 2022]