Antico e poesia non sono astrazioni fini a se stesse, ma si legano tra loro in uno stretto rapporto che salda nello studio dell’uomo e del meccanismo della sua sensibilità, in particolare del dinamismo delle passioni, il ruolo dell’antropologia, la quale nel progressso dello spirito umano precede quello della politica.
Lo scrittore che, secondo Leopardi, alle soglie dell’Ottocento si avvale per primo della parola soltanto quando essa è piena di senso ed ha valore per il suo contenuto, è Giuseppe Parini. E tuttavia nello Zibaldone noi leggiamo in rapsodici intervalli questi giudizi sullo scrittore lombardo. In Zib. 701 del 27 febbraio 1821 leggiamo: “(…) Parlo però del stile poetico, perché nel resto se si eccettuano quanto agli affetti il Metastasio e l’Alfieri (il quale però fu piuttosto filosofo che poeta), quanto ad alcune (e di rado nuove) immagini il Parini e il Monti (i quali sono piuttosto letterati di finissimo giudizio che poeti, (…)“.
E ancora in Zib. 1057-1058 del 17 maggio 1921, il Leopardi scrive: “(…) Lasciando gl’infiniti altri, la lirica italiana, quella parte in cui l’Italia, a parere del Verri (Pref. al Senof. del Giacomelli), e della universalità degli italiani, è senza emola, eccetto il Petrarca che spetta piuttosto all’elegia, chi può mostrare all’Europa senza vergogna? Gli sforzi del Parini (veri sforzi e stenti, secondo me, mostrano e quanto ci mancava, e quanto poco si sia guadagnato (…)“. Infine, in Zib.2364 del 27 gennaio 1922: “Il Parini tende anch’esso nella malinconia, specialm. nelle odi, ma anche nel Giorno, per ischerzoso che paia. Il Parini però non aveva bastante forza di passione e sentimento, per essere vero poeta (…). Dovunque non regna il malinconico nella letteratura moderna, la sola debolezza n’è la causa“.
Non si nega la natura poetica di Parini, ma la si adombra col senso del limite. Eppure Leopardi fa esporre il suo pensiero intorno ad un nodo ufficiale di dottrina, e cioè la poetica, ed in particolare intorno alla gloria letteraria, proprio dal Parini, un letterato italiano vissuto in un’epoca assai vicina alla sua e rispettato e venerato, nel dialogo Il Parini ovvero della gloria, in cui, a partire dal titolo evocativo dello spirito ciceroniano (Cato maior de senectute), vi è un riepilogo di tutto l’umanesimo settecentesco che rielabora e celebra la coscienza dei valori umani, la sensibilità morale e sociale e la responsabilità civile dell’uomo. Sta di fatto che l’inclinazione all’eroismo, alla virtù, alla magnanimità che tocca tutta l’opera del Parini, anche se si iscrive legittimamente nella poesia didascalica del Settecento, è però finalizzata soprattutto al rinnovamento dell’arte mediante un contenuto didattico ed un ruolo educativo complementari del linguaggio poetico che ripudia la parola senza pensiero.
In Zib. 2584 leggiamo: “Nelle parole si chiudono e quasi si legano le idee, come negli anelli le gemme, anzi si incarnano come l’anima nel corpo, facendo seco loro come una persona, in modo che le idee sono inseparabili dalle parole, e divise non sono più quelle, sfuggono all’intelletto e alla concezione, e non si ravvisano, come accadrebbe all’animo nostro disgiunto dal corpo. (27. Luglio. 1822.)”.
Ne consegue che Leopardi trae dall’opera del Parini alcuni elementi teorici corrispondenti al ruolo concettuale del suo pensiero in merito alla questione moderna della letteratura filosofica.
Abbiamo osservato che lo Zibaldone registra il 17 maggio 1821 la carenza di lingua poetica in Italia dopo il Petrarca. La nostra lingua, tuttavia, può essere applicata a tutti i generi di scrittura e vi sono esempi di tutti gli stili fuorchè del genere filosofico moderno, fatta eccezione di alcuni generi scientifici negli scritti del Galilei e del Redi, e di politica nel Machiavelli. In Zib.1371 “Ma a quel genere filosofico che possiamo generalmente chiamare metafisico, e che abbraccia la morale, l’ideologia, la psicologia (scienza de’ sentimenti, delle passioni e del cuore umano) la logica, la politica più sottile ec. non è stata mai applicata la buona lingua italiana. Ora questo genere è la parte principalissima e quasi il tutto degli studi e della vita d’oggidì. (13. Luglio 1821.)”.
Il dialogo Il Parini ovvero della gloria non ha invero un interlocutore chiaramente determinato. E’ intervenuto in esso come uno sdoppiamento dell’autore, quasi un rispecchiamento, per cui l’autore medesimo è interlocutore di se stesso, e finisce col dichiarare la propria rinuncia all’immortalità mediante la conquista della gloria letteraria. Chi legga il dialogo con circospezione, si accorge che circolano in esso pensieri ripresi dallo Zibaldone e volti a giustificare non solo il motivo della somma difficoltà di ottenere la gloria, ma anche le ragioni che determinano l’impossibilità di conseguirla.
In Zib. 1787-1788 si legge: “(…) La letteratura è stato sempre il più sterile di tutti i mestieri. Il vero letterato (se non mescola alla verità l’impostura) non guadagna mai nulla (…).( 25. Sett. 1821.)”. E di seguito in Zib. 1788-1789: “Gli illetterati che leggono qualche celebrato autore, non ne provano diletto, non solo perché mancano delle qualità necessarie a gustar quel piacere ch’essi possono dare, ma anche perché si aspettano un piacere impossibile, una bellezza, un’altezza di perfezione di cui le cose umane sono incapaci. Non trovando questo, disprezzano l’autore, si ridono della sua fama, e lo considerano come un uomo ordinario, persuadendosi di aver fatto essi questa scoperta per la prima volta. Così accadeva a me nella prima giovinezza. Leggevo Virgilio, Omero ec. (25 sett. 1821.)”.
In Zib. 2569-2570-2571 del 19 luglio 1822 si legge: “(…) In letteratura (…) colui che esprime con più arte i suoi pensieri, è sempre quello che trionfa, e che meglio arriva all’immortalità, sieno pure i suoi pensieri di poco conto, e sieno pure importantissimi e originalissimi quelli d’un altro che non abbia sufficiente arte nello scrivere: (…) Dal che si deduce che in ultima analisi la forza dell’arte nelle cose umane è maggiore assai che non è quella della natura (…)”.
I filosofi antichi insegnavano e qualche volta avanzavano concetti, proposte, tesi speculative, ma in questo caso nessuno di essi rinunciava a sostituire una sua idea, anche se più vicina che lontana dalla sfera dell’utopia, od un suo sistema dottrinario. E’ quel che fecero anche Cartesio e Newton nella prima restaurazione della filosofia. La filosofia moderna tuttavia è superiore all’antica perché, scrive Leopardi in Zib. 2709-2710- “Ma i filosofi moderni, sempre togliendo, niente sostituiscono. E questo è il vero modo di filosofare, non già, come si dice, perché la debolezza del nostro intelletto c’impedisce di trovare il vero positivo, ma perché in effetto la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori, e sapientissimo è quello che sa veder le cose che gli stanno davanti agli occhi (…)”. E in Zib. 2711: “I filosofi antichi seguivano la speculazione, l’immaginazione, il raziocinio. I moderni l’osservazione e l’esperienza. (E questa è la gran diversità fra la filosofia antica e la moderna). Ora quanto più osservano tanto più errori scuoprono negli uomini, più o meno antichi, più o meno universali, propri del popolo, de’ filosofi, o di ambedue. Così lo spirito umano fa progressi (…). (21. maggio 1823.)”.
Noi sentiamo che l’intelletto speculativo di Leopardi si è aperto ad un orizzonte più ampio e più vasto ed idoneo alla concezione di nuove idee. Avanzano con lui nella cultura italiana nei primi decenni dell’Ottocento le nuove nazioni che si sono immesse nella via del pensiero, il Settentrione, la francia, l’Inghilterra, la Germania. Lo spirito di bacone, di Leibniz, di Newton, di Locke innesta nella luce di civiltà e di letteratura progressi tali che erano rimasti preclusi alla cultura meridionale. Riflessioni su questi argomenti sono testimoniate da riferimenti rapsodici sparsi nello Zibaldone. Un concetto perentorio e fermo va subito colto in Leopardi.
Cartesio, Galileo, Newton e Locke hanno veramente cambiato faccia alla filosofia. Ne è nata una nuova scala di valori culturali ed etico-sociali nella quale tutto ciò che appare produttivo e di utilità acquista un posto di rilievo ed attrae un interesse sempre maggiore. E’ in atto difatti in Europa una nuova scienza della natura, e di pari passo viene sviluppandosi come scienza ancor più nuova, la filosofia civile rispetto alla quale la precedente tradizione di pensiero politico si configura come sapere dogmatico, cioè un sapere nel quale le passioni e gli interessi degli uomini impediscono la ricerca della verità.
Ora comprendiamo meglio perché Leopardi sceglie Parini come protagonista del suo dialogo. Parini è lo scrittore che nelle lezioni tenute nell’Accademia di Brera a partire dal 1769 dimostra di aver assimilato il sensismo dalle posizioni teoriche di J. Locke e S. Cordillac e perciò nelle sue opere celebra la natura civile ed utilitaria della operazione estetica e nega la concezione meramente edonistica dell’arte. E’ vero che le istanze riformatrici di Parini non vanno al di là della critica alla moralità dominante ed il concetto di uguaglianza degli uomini non infievolisce la gerarchia delle classi e dei ceti, in cui l’aristocrazia ha un ruolo sociale di rilievo, ma questo tuttavia non impedisce la protesta e l’indignazione quando la sua funzione viene disattesa; inoltre tutto ciò non esclude che l’esperienza letteraria esprima la volontà consapevole della necessità di innalzare e riscattare il discorso poetico, all’interno del quale scatta l’immagine dell’uomo maestro di vita. E ci sembra che queste siano forme non discordanti di un ideale comune e caro tanto a Parini quanto a Leopardi.
In Zib. 1650 leggiamo: “Quanto l’immaginaz. contribuisca alla filosofia (ch’è pur sua nemica), e quanto sia vero che il gran poeta in diverse circostanze avrìa potuto essere un gran filosofo, promotore di quella ragione ch’è micidiale al genere da lui professato, e viceversa il filosofo, gran poeta, osserviamo. Proprietà del vero poeta è la facoltà e la vena delle similitudini (…) Un vigore anche passeggero del corpo, che influisca sullo spirito, gli fa vedere rapporti fra cose disparatissime, (…) gli mostra delle relazioni a cui egli non aveva mai pensato, gli dà insomma una facilità mirabile (…) d’incorporare vivissimamente il pensiero il più astratto, di ridurre tutto ad immagine, e creare delle più nuove e vive che si possa credere (…). Tutte le facoltà del gran poeta, e tutte contenute e derivanti dalla facoltà di scoprire i rapporti delle cose, anche i menomi, e più lontani, anche delle cose che paiono le meno analoghe ec. Or questo è tutto il filosofo: facoltà di scoprire e conoscere i rapporti, di legare insieme i particolari, e di generalizzare. (7 sett. 1821.)”..
Concisa ma folgorante è l’annotazione di Cesare Galimberti nel suo commento alle Operette morali: “Non a caso Il Parini va acquistando forza poetica col graduale spostarsi del tema dalle difficoltà della fama letteraria alla gloria come piacere sommo e alla speranza, vana, della immortalità. L’operetta risulta così scandita in tre grandi momenti: d’intonazione dapprima retorica, poi morale, infine metafisica”[8]. Il pensiero, salito all’episteme ed alla filosofia, si è sublimato in poesia.