di Antonio Devicienti
(Ogni notte, non visti e non uditi, i Salentini ormai privati del corpo, MA NON DELLA LORO MEMORIA TERRESTRE, fanno ritorno nei luoghi fascinanti: Leuca de Finibus Terrae, la Centopietre di Patù, i pochi ruderi di Casole, le mura di Castro alta, la Cappella di San Paolo a Galatina … )
(Parla Claudia Ruggeri, commossa dalla bellezza selvaggia e apparentemente caotica dell’opus di Pantaleone, s’inginocchia in una porzione dietro l’altare, tocca il pavimento con evanescenti, inesistenti dita).
«La pianta di ricino, eccola, e Ninive grande città; Giona nel ventre del pesce sul fondo del mare e l’urto del singulto che lo rigetta a riva.
Il cielo riversato nella terra e nel mare e i mosaicisti organando a schiere.
I pesci, l’acqua e la città da convertire al bene. Un’umile pianta di ricino (eccola!), un matto e un attore e il suono del silenzio dal fondo del mare.
Un ventre (di pesce di balena di mare di deserto) che divora o che accoglie, che distrugge o che rigenera, un ardere di vento che secca.
E non ci si perde in questa grande scacchiera dell’essere, in questo precipitare a testa in giù, ma pesci o piante di ricino si nuota, si germoglia sentendo i passi dei bimbi sul ventre e sulla testa.
Artù temerario e solenne, basilisco dai mille colori, asino di Apuleio, gatto calzato, monaco e unicorno.
Se ci fosse un posto per me nel tappeto di mosaico sarebbe proprio tra bordo della nave e superficie marina, volo della mente e grazia profonda degli abissi».