Questo, se si guarda e si considera la realtà dell’umanità limitatamente al breve – unico possibile, ma significativo – tratto spazio-temporale, in cui si svolge la singola esistenza personale più o meno lunga. Se, poi, si volge lo sguardo il più possibile lontano e si affissano gli occhi sugli accadimenti nell’intero spazio del pianeta terrestre e si esaminano le qualità esistenziali, che hanno caratterizzato (e caratterizzano tuttora) i rapporti tra le nazioni e le relazioni tra i popoli, l’animo umano – soprattutto in questo periodo veramente drammatico – raggela e la mente attonita si rifiuta di credere a ciò che gli occhi le presentano. Ammutolisce esterrefatto e nello stesso tempo si ribella titanicamente l’animo soprattutto di chi ha vissuto i suoi anni nel clima della libertà e della pace, cioè, di chi ha covato i valori irrinunciabili della dignità umana, di chi ha nutrito i sentimenti costruttivi della solidarietà e di chi crede nel reciproco sostegno generoso e non di rado del tutto gratuito. Non si fa riferimento tanto alle centinaia di luoghi attualmente teatro di assurde guerre fratricide (promosse e sostenute a distanza da pochi potenti e subìte e combattute da vicino dai molti malcapitati destinati a lottare e a morire), quanto alle cause vere e reali – antropologicamente connaturate e ultime e sociologicamente radicate e profonde.- che originano e alimentano negli umani assurdi e inauditi istinti di odio cieco e di brama smisurata di prepotenza. Cioè, l’uomo è essenzialmente malvagio per sua propria natura? Per realizzare totalmente i suoi progetti esistenziali ha bisogno di tormentare e dilaniare i suoi simili insieme a madre Natura nella sua totalità?
E’ vero che già Thomas Hobbes – uno tra gli altri – aveva marchiato l’uomo per natura propria “lupo verso i suoi simili” e aveva denunciato conseguentemente lo stato naturale dell’umanità come “guerra di tutti contro tutti”: quindi, lotta continua indiscriminata, alimentata da cinici egoismi sfrenati, da insensati impulsi di strapotere e da incontrollato spirito di prepotenza e di sopravvivenza. Ma l’insistenza del filosofo britannico su questa visione estremamente negativa mirava soprattutto ad evidenziare la necessità salvifica d’una strutturazione organica del corpo sociale, per la quale urgevano un ordinamento politico condiviso (anche se coartatamente) e, quindi, la presenza responsabilmente vigile d’un Potere assoluto e l’intervento rigorosamente inflessibile d’un Leviatano, che avrebbero saputo e potuto imbrigliare e incanalare ogni forza ed energia negative in itinerari di sinergia positiva e collaborativa a vantaggio d’un graduale sviluppo generale. Da parte opposta c’imbattiamo nel pensiero del ginevrino Jean Jacques Rousseau, autentico “santone” della Natura soprattutto umana, per il quale è proprio la socializzazione degli uomini a corrompere l’originaria bontà naturale dell’umanità. La tesi proposta dal Rousseau, però, non pare convincere, a meno che la “socializzazione umana” sia dotata di poteri taumaturgici, grazie ai quali può trasformare sostanzialmente la realtà oggettiva anche umana. La convivenza – si argomenta a tal proposito – può ritenersi occasione (individualmente sgradita, ma necessaria nei fatti) per lo svelarsi e il manifestarsi di aspetti anche negativi, e persino aggressivi, connaturati nell’esistente umano. Tra queste opposte concezioni – paradossali e, quindi, difficili a comprendersi e a condividersi – si collocano molte altre visioni, che, ponendo l’accento su qualcuno dei molteplici e diversi aspetti del problema, tentano di sostenere e di dimostrare la multiforme e talora contraddittoria vita umana nel suo evolvere e i conseguenti suoi comportamenti.
Appare maggiormente persuasiva e, quindi, più facilmente condivisibile la proposta di coloro che ricercano e tentano di comprendere le modalità e le problematiche riguardanti il naturale e ineludibile passaggio generazionale, osservando e indagando i processi della «educabilità» dell’uomo e della «sociabilità» dei popoli. L’uomo – si nota e s’argomenta – non nasce “uomo” già fatto, ma “cucciolo” umano non ancora cresciuto e formato, ma che dovrà crescere e formarsi – gradualmente e faticosamente – fino a divenire uomo sostanzialmente «formato» mediante il superamento di ogni tappa della crescita globale in ogni dimensione costitutiva l’integrale natura dell’esistente umano: dimensione fisica, intellettiva, morale, sociale e politica. Ugualmente i popoli: affinché essi, da agglomerati indistinti di anonimi individui umani, divengano “società di cittadini” liberamente aggregati e responsabilmente impegnati tra loro, dovranno «crescere e rinnovarsi» tempestivamente nell’acquisizione e nella condivisione di comuni progetti di ordine civile, etico e, innanzitutto, giuridico, per realizzare concreti progressi di bene comune. Il singolo e le società, quindi, non nascono né esistono «hic et nunc ex nihilo sui et obiecti», ma radicano nel passato ereditato e vivono, grazie anche ad esso, il loro presente storico e progettano il loro agognato futuro ideale. Non c’è, quindi, presente solido e futuro credibile senza il passato capito e accolto con il rispetto profondo richiesto e dovutogli. Ma è proprio l’ineludibile legame vitale del presente col passato che sta alla base di antiche e recenti discussioni.
Le nuove generazioni – avvertiva con fierezza Francesco Bacone nel 1600, ripercorrendo le orme di una tradizione plurisecolare – sono come dei nani sollevati e appoggiati sulle larghe e robuste spalle di un gigante: i giovani, cioè, possono fruire . liberamente e felicemente – delle conquiste scientifiche e di civilizzazione ottenute dall’impegno e dal lavoro delle generazioni che li hanno preceduti e, ripartendo da esse, proseguono e arricchiscono l’umano patrimonio scientifico e culturale, consegnandolo più copioso e più fertile ai loro posteri. La crescita civile e culturale dell’umanità, quindi, è una costruzione in diversi tempi e a più mani destinata a uomini sempre più pronti ad abitare proficuamente l’inesplorato e prezioso pianeta Terra e a convivere degnamente in solidale armonia con i loro simili. Questa visione impastata d’ottimistica positività s’infrange, però, davanti alla situazione emblematicamente rappresentata in piena epoca illuministica dalla «Querelle des Anciens et des Modernes»: una un’inutile polemica tra dotti per rivendicare e dimostrare la maggiore rilevanza dell’antichità sulla modernità o il contrario. La cultura, quindi, vista come competizione da superare e vincere e non come emulazione da ammirare col desiderio di migliorare il presente e il futuro. Atteggiamento, questo, che rivela il dominio di un pericoloso individualismo, che nuoce al singolo, che da solo non ha prospettive di fecondità, e alla comunità umana, che resta impoverita.