Senza memoria nessuna chance di progresso

Nei contesti dell’esistenza, nei processi di conoscenza, i significati che assume la funzione culturale della memoria, vengono relegati ai margini, come condizioni non necessarie, ininfluenti. Come se ogni cosa cominciasse nel momento esatto il cui la si vede, la si scopre. Come se tutto quello che è stato fosse assolutamente vano e tutti coloro che sono esistiti  fossero esistiti assolutamente invano. La memoria è lontana e senza rilievo.

Come dice la voce di Edith Conant nell’ Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters:  la memoria, le memorie, se ne stanno sole, perché nessun occhio le vede; sole, timorose, con gli occhi chiusi nell’infinita tristezza di piangere.

Ma si sa che non esiste scienza e non esiste esperienza, non esiste pensiero, parola, civiltà, condizione, non esiste arte e non esiste costruzione, non esiste religione, sentimento, e forse neppure emozione, che non rappresenti l’ultima, e provvisoria,  espressione di una stratificazione della memoria di una creatura e di una gente.  

Certo, la memoria di una creatura si ferma a un certo punto. Ogni uomo ricorda finchè ha possibilità di ricordare. Il tempo gli sottrae i ricordi, dopo averli confusi, sfocati. Gliene lascia solo alcuni: forse quelli più intimi, quelli più profondi; forse quelli più amari o forse quelli più dolci.  

La memoria di tutti, quella che si compone con l’integrazione e l’interazione della memoria di ciascuno, con il tempo formula categorie e codificazioni, si costituisce come una rete di riferimenti, realizza condizioni di appartenenza. Si appartiene a qualcosa, a qualcuno, ad un luogo, alla sua gente, quando con il luogo e con la gente si condivide una memoria. Quando si condivide una storia. Quando si riesce a comprendere anche l’implicito della storia. Quando non si ha necessità di cominciare a dire sempre tutto dal principio ma si può partire da un senso acquisito, da un punto condiviso, e andare avanti.

Ecco: andare avanti. Pensare un progetto.  

Diceva Paul Ricoeur che è nella misura in cui torniamo alle nostre origini e in cui ravviviamo il nostro passato che possiamo essere gli uomini del progetto. Ma in questa tensione verso il progetto, il passato ci interpella continuamente.

Allora avere conoscenza di quello che è già accaduto, delle storie che sono già state raccontate,   significa concedersi la possibilità di andare avanti nei processi di sviluppo, nei percorsi di progresso.  

Memoria non è celebrazione del passato. E, piuttosto, uno sguardo rivolto all’orizzonte con la consapevolezza che al punto in cui ci si trova si è arrivati perché altri prima di noi, molti altri, hanno fatto il cammino.  

Ma alle volte si ha l’impressione che le stagioni che si avvicendano nel tempo che stiamo vivendo siano stagioni di smemoratezza. Altre volte, questa impressione si trasforma in una quasi certezza. Chissà se la smemoratezza non sia uno dei motivi per i quali l’orizzonte che si distende davanti ci sembra offuscato  oppure proprio scuro.   

Forse dobbiamo ricominciare a fare i conti con quelle che sono le radici dei fatti che ci accadono intorno, con l’origine delle storie che corrono per il mondo, con le cause e gli effetti delle loro bellezze incantevoli e delle assai tristi bruttezze.

Sì, forse è con la concretezza della memoria che si deve ricominciare a fare i conti.

Non ricordo chi fosse l’autore e quale fosse il titolo del libro in cui anni fa lessi questa frase: la civiltà che non ha più memoria è destinata a morire di freddo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 10 luglio 2022]

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