Mia Buona Signorina

Le lettere di Anna risultano essere un documento di impareggiabile valore storico e culturale per lo spaccato di vita che offrono e per l’angolatura da cui la realtà viene ritratta. Chi guarda, chi registra, chi riporta informazioni e allarga coni di visuale è una donna nata nel 1898, vissuta nella parte sud del Salento all’interno di una cultura patriarcale incapace di riconoscere alcunché alle donne-figlie soprattutto se non sposate.  Una “invisibilizzazione” sociale che si mostrava, spesso, nel non riconoscimento di quote ereditarie e legittime a fronte, anche, degli immani sforzi lavorativi sostenuti dalle donne nei periodi di guerra: erano state loro a tenere possibilità di produttività nelle proprietà terriere.

Il testo con la testimonianza epistolare di Anna, entrerà a far parte di quella letteratura che, nel secondo dopoguerra, ha contribuito a squarciare il velo e rendere nominabili le condizioni di vita del meridione d’Italia.

Al Cinoma Anna gradisce guardare “cose che fanno cose di guerra” perché “…a me mi piace le cose di amore che si baciono e mi sono sempre a me piaciute queste cose”.[3]

L’esperienza della corrispondenza con Annabella Rossi ha un ruolo importante nell’esistenza di Anna, rinforza la sua tensione comunicativa e le consente di definire “il proprio luogo” a partire da una lingua a cui Anna chiede, con forza, di poter essere veicolo di scambio. Anna, dinanzi alle risposte epistolari di Annabella Rossi definisce –per la prima volta- il contorno del proprio raggio d’azione, del proprio angolo visuale. La lingua che emerge è una sorta di lingua dell’abbandono: non colpiscono gli errori grammaticali, la mancanza di costrutto, la povertà simbolica, ciò che tocca è l’esito di una scolarizzazione, nei fatti, mai giunta ai contadini dal periodo post-unitario fino a tutta la prima metà (e oltre) del XX sec. Anna narra gesti minuti di una quotidianità in cui tutto è ripetizione ciclica, arcana, infinita. Ogni qualsivoglia “fatto” non sia nella ruota dentata della ripetizione infinita, è evento. E’ evento da dettagliare “il grosso scarpione”, la caduta del piccolo in un pozzo, l’ascolto della radio, l’arrivo del pacco della Signorina, l’invio di “una bottiglia di oglio è un boccaccino di peperone sotto oglio”[4], la richiesta di farmaci, la richiesta di una “bottigliona di profumo”, di un “fazzoletto per la testa”, la venuta del circo, l’arrivo dei missionari, le processioni… sono eventi-lancetta che segnano l’orologio della comunità e a cui Anna partecipa sgranando lo sguardo e gli intenti per recepire la possibilità di un ruolo riconosciuto e di una presenza di sé a sè. Oltre a ciò si delinea l’orizzonte di un universo umano fatto di sottili pennellate, di lunghe attese, di corpi spezzati dall’incapacità di comunicare, di sentimenti schiacciati dalla rabbia non espressa, dalla parola non nominata che cova selvaggia nel cuore.

Ciò che è stato storicamente sottratto a queste donne e a questi uomini è l’intimità della relazione  con la radice della propria umanità. La loro umanità ha subito un graffio devastante che li colloca al di fuori di ogni possibile narrazione di sé a sé. Incredibilmente potente dinanzi a tale dato la soluzione strategica della reintegrazione attraverso il rito. Ed è intorno e dentro al relitto della propria spiritualità che “si gioca” spiritualità ossia ricerca di legame simbolico con sé, con la comunità, con il “covicinato” come dice Anna. I momenti delle feste religiose aprono al rito e proteggono, innanzitutto, da se stessi, dal proprio disfacimento culturale, sociale, storico.

Anna, nella sua esistenza, non aveva mai ricevuto un “recalo”, il suo primo “recalo” lo riceverà da Annabella che le dirà cosa è: “un uovo pascuale” che le giunge “a frantumi”.

“Mia cara Signorina se vieni D’isandonato vedi pure la Festa di S’arrocco  che simile festa, non si trova a nessuna parte… fammi favore di non scrivere a mano che io non a rivo la vostra ligrafia me la fai in macchina che me la lego sola.”[5]

Annabella Rossi pone domande su canti, sui pignatari, sull’arredamento delle abitazioni, Anna risponde meticolosa nella dovizia e profusione di particolari. La sua descrizione dà dignità alla miseria. La sua narrazione le consente di tenere in superficie ciò che potrebbe, da un attimo all’altro, inabissarsi. Quello che tocca è l’intensità del desiderio con cui Anna attende la venuta della Signorina: dinanzi al nulla dei contenuti della propria esistenza, Annabella diviene il mondo, la speranza, la possibilità, la lontananza che si trasforma in prossimità. Probabilmente questa è la reale magia: Anna riesce a colmare la siderale distanza che la separa da sé, dal mondo, dagli altri attraverso l’elaborazione di un volto lontano che, per la prima volta, è volto benevolo, è fattezza che mostra interesse al suo dire, al suo universo minimale, alla sua inconsapevole incapacità di stare alla realtà, giunco sottile, ondivago fantasma.

“Cara Signorina tu si mi hai vista come è la mia malattia ma non mi hai mai pottuto vedere come divento quando mi arrabbio ora Mia Cara Signorina facciamo la pace e se tu non mi scrivi e siei con me in urtoio farò qualche pazzia nei momenti che io ragiono che sono molto buona…”.[6]

“Mia Buona Signorina non a pena sono a rivata dei paesi che sono entrata in casa hò trovata la vostra lettera non puoi mai immaginare che gioia hò provata dentro al mio cuore quando lo letta… mi sono discese le lacrime dei miei occhi e la gentte mi anno detto invece di ridere tu piangi…”[7]

Anna cerca di vivere ogni gesto nella cerchia dell’accettazione e dell’autorizzazione della comunità di riferimento. I legami genitoriali praticamente inesistenti le hanno lasciato il segno di quella fantasmizzazione di sé a sé che, lei, deve continuamente colmare attraverso un’azione coreografata complice la vita nelle misere corti in cui il sistema del dentro-fuori era molto labile.

“Mia cara Signorina la sua Anna non può assolutamente scrivere da sola perché sta molta abbattuta… Solo le dico che le tarantole mi perseguitano. Non posso mangiare perché nel piatto vedo dei grossi scarpioni, non posso bere, perché nel bicchiere ci sono pure le tarantole e ieri notte il mio letto era pieno e zeppo… Se la tarantola me lo permette posso mangiare se no devo rimanere a dieta…”.[8]

Periodicamente, la taranta e lo scarpione comandano e Anna perde il centro di sé, è l’entità animale a governarla, è l’emersione di un pungolo ancestrale a tracimare e, Anna, ne è sopraffatta, perde confini. La risalita ha a che fare con luoghi (pellegrinaggi), entità (i Santi), relazioni cui tenersi unita (le Verginelle), ritualità (le Processioni, la preparazione dei pasti che divengono sorta di libagione da condividere per placare fame spirituale il cui aspetto conosciuto è il vuoto immenso, interiore.

“Essere circondata da tarantole”, un universo interiore non composto, un rimando caleidoscopico di parte di essere non giunta alla propria fattezza ontologica.

“Cara signorina, senza che lei se la prendesse a male, il sesso maschile per conto mio, assolutamente non lo posso tollerare. Che il suo amico sia un dottore, io non lo sapevo, ma, a me poco interessa. Interessa solo dirle che io abito in un piccolo paese e per di più non tanto spinto alla civiltà, e il nostro ambiente è molto diverso dalla città. La gente è pronta a criticare di tutto…”[9]

Emerge in più passaggi il tema del controllo sociale. La dinamica del mostrarsi, tanto cercata, è in realtà agita all’interno di ferree regole di condivisione dalle cui maglie passa il binario accettazione-non accettazione e, Anna, è ben attenta a rispondere con precisione a ciò che la sovrasta e su cui non può avere contraddittorio. Il peso della realtà che la schiaccia va contrastato inseguendo risposta socialmente accettabile.

Delicatissime le modalità attraverso cui Anna cura la relazione con le altre: mezzo inconsapevole di sostegno alle proprie parti ferite. Anna prepara cibo per le tarantate e le mazzate in uno sforzo sovrumano che la spinge a “tenere insieme” e, per loro, prepara, offre, cucina, acquista, chiede in prestito, cerca… lo fa per tutte le sue Verginelle

La pubblicazione di Annabella Rossi è testo che sollecita un sentimento di grande pietas e tiene all’interno di un profondo senso di umanità. Una pagina di storia meridionale impareggiabile per contenuti e rimando ad un tema centrale: l’apprendimento della lingua italiana nel secondo dopoguerra nelle terre a Sud.

Per taluni aspetti l’argomento è di attualità ancora oggi, pur con risvolti completamente altri relativi a questioni quali gli analfabetismi di ritorno, gli impoverimenti lessicali e di costrutto… La bellezza di questo testo resta tutta racchiusa nella delicatezza specifica che unisce le questioni legate agli aspetti tecnici riguardanti l’apprendimento dell’italiano alla dimensione esistenziale, di cui Anna è un epigono, di vite piagate dalla miseria estrema, a Sud.


[1] Annabella Rossi, Lettere da una tarantata, Argo ed. 1994, pg.113

[2] Ernesto de Martino, La terra del rimorso, il Saggiatore 1994

[3] Ivi pg. 114

[4] Ivi pg. 156

[5] Ivi pg. 184-185

[6] Ivi pg. 199

[7] Ivi pg. 203

[8] Ivi pg 205

[9] Ivi pg. 206

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