Si parte dall’Unificazione, quando, come mostrato da un’ampia letteratura storica, il Pil pro-capite delle regioni meridionali non era molto inferiore a quello del Nord. Dal 1861 si avvia la divergenza, imputabile a fattori che attengono alla localizzazione di lungo periodo dei fattori della produzione. Data l’esistenza di economie di scala, e dunque di costi di produzione che decrescono all’aumentare della quantità prodotta, sussistono incentivi a concentrare la produzione laddove è più grande la dimensione del mercato, per minimizzare i costi di trasporto: migrano a Nord le imprese (o aumenta in termini relativi la natalità di imprese in quelle aree), soprattutto quelle con tecnologie di avanguardia. L’esistenza di un più ampio mercato nelle aree del Nord Europa rispetto al bacino mediterraneo potrebbe concorrere a spiegare gli effetti di polarizzazione al Nord seguiti all’immediata unificazione italiana. Si chiama effetto home-market: l’imprenditoria del Nord sfrutta la prossimità spaziale dell’area più prospera dell’Europa (il cosiddetto Home-Market primario) e del proprio stesso mercato, mentre l’imprenditoria del Sud vede l’area del centro nord tre volte più lontana dal mercato europeo, anche in termini di costi di transazione logistica (trasporto, distribuzione ecc.).
Va anche ricordato, a riguardo, che alcuni economisti, fra i quali il premio Nobel Gunnar Myrdal, hanno parlato di “annessione” per caratterizzare i rapporti post-unitari fra Nord e Sud del Paese.
Con eccezione degli anni Settanta, quando incisiva fu la presenza dello Stato e delle imprese pubbliche in economia, la Storia d’Italia è sempre caratterizzata da un aumento delle divergenze regionali, che vedono progressivamente accentuarsi, nel Mezzogiorno, una specializzazione produttiva in settori tecnologicamente di retroguardia. SVIMEZ parla, a riguardo, di “sottosviluppo permanente”. Il ritardo di sviluppo (e i bassi tassi di crescita) al Sud sono il risultato della sua specializzazione produttiva in settori maturi, in un contesto nel quale mancano imprese ad alto valore aggiunto e il tessuto imprenditoriale è composto essenzialmente da imprese di piccole/piccolissime dimensioni, spesso a gestione familiare, fortemente dipendenti dal credito bancario, con una rilevante presenza dell’economia sommersa: agricoltura e turismo restano dominanti.
Il Mezzogiorno non giunge per caso a questa specializzazione, ma lo fa – in linea con quella assunta dall’economia italiana negli ultimi decenni – a seguito del decentramento produttivo degli anni Settanta/Ottanta. A fronte della crescita della conflittualità operaia in quegli anni, il padronato fa propria una strategia di divide et impera, smantellando la grande impresa e collocando i lavoratori in opifici di piccole dimensioni (accompagnando questi processi con la retorica del “piccolo è bello”) e in settori produttivi a bassa intensità conflittuale (tipicamente il turismo e il commercio). Scomparve gradualmente l’impresa pubblica, che manteneva l’occupazione vicina al pieno impiego e che, quindi, dal punto di vista confindustriale, contribuiva a sbilanciare le relazioni industriali a favore del lavoro. Il pieno impiego implica, infatti, il massimo potere contrattuale dei lavoratori, sia nel mercato del lavoro, sia nella sfera politica.
Il recente dato sulla disoccupazione rende dunque pessimisti in ordine alla possibilità di individuare, nell’economia meridionale, potenziali fattori di sviluppo endogeno. E vi è poi un nesso che andrebbe più accuratamente trattato: l’evidenza empirica mostra che le ore lavorate in Germania sono notevolmente inferiori a quelle dell’Italia e ancor più del Mezzogiorno. Vi potrebbe essere quindi una correlazione per la quale laddove si lavora meno la disoccupazione è più bassa.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 8 luglio 2022]