“Parlate di morale quanto volete ad un popolo mal governato; la morale è un detto, e la politica un fatto; la vita domestica, la società privata, qualunque cosa umana prende la sua forma dalla natura generale dello stato pubblico di un popolo (…)“.
Nel 1820 Leopardi aveva già vergato le coordinate essenziali del suo pensiero intorno al dissidio ragione-natura. La ragione, termine che in Leopardi si svolge in diversi usi, distruggendo per virtù dei lumi le forme superstiziose e i pregiudizi di vita, si viene sempre più perfezionando e nonostante questo aspetto della sua essenza, è lungi dal rendere felice o meno infelice l’uomo; pur svelandogli il nulla delle cose, gli consente tuttavia di restare vicino alla natura, rispettandone la successione la varietà degli oggetti e dei casi (Zib. 104) com’è detto sotto la data del 20 gennaio 1820, col vantaggio di giovargli, rendendogli tollerabile e talora degna di essere vissuta la vita mediante la sfera delle illusioni. Grazie ad esse la vicinanza dell’uomo alla natura è maggiore e gli giova più di quanto non sia idoneo a giovargli il ruolo distruttivo della ragione. Il dissidio tra natura e ragione introduce Leopardi in una forma avanzata di antropologia che si fonda sul meccanismo della sensibilità, da cui a sua volta ha origine il dinamismo delle passioni che inclinano all’utilitarismo e all’egoismo gli individui in perpetua competizione tra loro.
“Intendo per innocente non uno incapace di peccare, ma di peccare senza rimorso”. (Zib. 51).
Questo pensiero, vergato nel gennaio 1820, viene ripreso e ampliato in Zib. 276 il 14 ottobre dello stesso anno:
“P. 51. capoverso 4. aggiungi. Nello stesso modo io non chiamo malvagio propriamente colui che pecca (molti non peccano per viltà; per ignoranza del male, per imperizia e mancanza d’arte nell’eseguirlo, per impotenza fisica o morale o di circostanza, per torpidezza, per abitudine, per vergogna, per interesse, per politica, per cento tali ragioni), ma colui che pecca o peccherebbe senza rimorso. (14 8.bre 1820)”.
Ci troviamo di fronte a una antilogia sofistica[5]. La ragione ha corrotto l’uomo distruggendo le prerogative della spontaneità, della chiarezza, della semplicità, della naturalezza, in una parola dell’innocenza, proprie dell’estetica antica. Tramontata la natura primitiva dell’uomo, la ragione ha modificato in peggio la conoscenza dell’uomo e non resta che il rimpianto di aver perduto un mondo che, pur nella sua pura materialità, rappresentava una forza estetica che gli consentiva di vivere al di qua del peccato, in uno stato d’innocenza e senza rimorso.
Il 1820 è stato l’anno in cui Leopardi ha studiato con maggiore acribìa esegetica e critica la Bibbia e specialmente quei luoghi del
“(…) Genesi i quali somministrano una formale e stretta dimostrazione religiosa del punto punto principale del mio sistema, cioè che la corruzione e la infelicità conseguente dell’uomo è stata operata dalla ragione e dalla cognizione, (9-15. Dic. 1820) e consiste immediat. nell’esso increm. loro (Zib. 420)”.
Il pensiero leopardiano si sprofonda nell’analisi dell’origine e delle conseguenze della caduta originaria, e le sue razionali argomentazioni legittimano il giudizio che Leopardi sia veramente l’intellettuale dell’Ottocento che maggiormente ha avuto coscienza di vivere in un’epoca decisiva per lo sviluppo dello spirito umano.
Per comprendere quali siano le conseguenze del peccato originale sul destino dell’uomo secondo la tradizione teologica nella storia dell’umanità, e qual è su di esso il pensiero di Leopardi, si legga attentamente questo passo in Zib. 375:
“La ragione è nemica della natura, non già quella ragione primitiva di cui si serve l’uomo nello stato naturale, e di cui partecipano gli altri animali, parimenti liberi e perciò necessariamente capaci di conoscere. Questa l’ha posta nell’uomo la stessa natura, e nella natura non si trovano contraddizioni. Nemico della natura è quell’uso della ragione che non è naturale, quell’uso eccessivo ch’è proprio solamente dell’uomo, e dell’uomo corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è naturale, né proprio dell’uomo primitivo”.
La ragione è incapace di ridurre a comprensibilità, a conciliare la dicotomia peccato e redenzione. Si è che la coscienza del peccato è sentita come sostanza della stessa esistenza individuale. L’uomo allora conosce la propria miseria, ma senza la conoscenza di Dio egli cade nella disperazione, cioè in uno stato di radicale instabilità, di persistente indecisione, di immobilità insanabile. Questo è il giudizio espresso dalla teologia tradizionale e contemporanea. Leopardi mette in discussione il peccato di Adamo, che ha ridotto l’uomo in un’assurda situazione, e lo fa con un’analisi razione che ha come perentorio obiettivo quello di sollevare, a difesa del regnum hominis, l’uomo di fronte alla natura e di fronte a Dio.
Dopo aver posto Adamo in paradiso voluptatis (Genesi 2, 8), Dio comandò all’uomo: “Tu puoi mangiare liberamente di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, poiché se tu ne mangerai, di certo morrai”. (Genesi, 2, 16-17). Da questo divieto deriva, secondo Leopardi, il problema della conoscenza dell’uomo intesa come capacità intellettiva e il potere particolare “(…) di entrare nei campi dello scibile non più per natura, ma per ragione”. La colpa dell’uomo fu volerlo sapere per opera sua, cioè non più per natura ma per ragione, e conseguentemente sapere più di quello che gli conveniva, cioè entrare con le sue proprie facoltà nei campi dello scibile, e quindi non dipendendo più dalle leggi della sua natura nella cognizione, scoprir quello, che alle leggi della sua natura, era contrario che si scoprisse. Questo e non altro fu il peccato di superbia che gli scrittori sacri rimproverano ai nostri primi padri; peccato di superbia nell’aver voluto sapere quello che non dovevano, e impiegare alla cognizione, un mezzo e un’opera propria, cioè la ragione, in luogo dell’istinto, ch’era un mezzo e un’azione immediata di Dio: peccato di superbia che a me pare che sia rinnuovato precisamente da chi sostiene la perfettibilità dell’uomo. I primi padri finalmente peccarono appunto per aver sognata questa perfettibilità, e cercata questa perfezione fattizia, ossia derivata da essi. Il loro peccato, la loro superbia, non consiste in altro che nella ragione; ragione assoluta: ragione, parlando assolutamente, non male adoperata; giacché non cercava se non la scienza del bene e del male. Or questo appunto fu peccato e supebia (…)“. (Zib. 396-397 del 9-15 dicembre 1820)”.
Quello che precede è un primo blocco di pensieri riversato in una lunga escavazione esegetica, cui seguirà l’analisi razionale di altri momenti del Genesi, con cui Leopardi modella l’impianto del suo sistema filosofico fondato sul dissidio natura-ragione e sul concetto di decadenza dello stato naturale o primitivo, allorché l’uomo entra in contraddizione con la natura.
Siamo agli incunaboli dell’ateismo leopardiano. L’intelletto del poeta si nutrirà ancora del pensiero europeo del Settecento, in primo luogo attraverso le opere speculative di Locke, di Hume e di Spinoza, e successivamente attraverso la cultura francese. Ne uscirà arricchito e consolidato il suo razionalismo e materialismo da cui germinerà la sua dottrina in controtendenza rispetto allo spiritualismo cattolico del suo secolo. Passano sette anni dal 1820 e il 7 aprile 1827, quando Leopardi verga una riflessione suggeritagli dalla tesi fondamentale dello spinozismo che postula “essere l’universo Dio esso stesso”, cioè la tesi del panteismo esposta nella “definizione VI del trattato dell’Etica di Spinoza: “Intendo per Dio un essere assolutamente infinito, cioè una sostanza costituita da un’infinità di attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna ed infinita“. E’ l’esplicitazione del concetto di sostanza in Spinoza, un essere indipendente, autonomo e necessario, causa di sé e in sé intellegibile, infinito, eterno, indivisibile, agente secondo una legge necessaria e, pertanto, immodificabile.
Ecco il pensiero in controtendenza di Leopardi: “Perché l’esistenza dell’universo fosse prova di quella di un essere infinito, creatore di esso, bisognerebbe provare che l’universo fosse infinito, dal che risultasse che solo una potenza infinita l’avesse potuto creare. La quale infinità dell’universo, nessuna cosa ce la può né provare, né darcela a congetturare probabilmente. E quando poi l’universo fosse infinito, la infinità sarebbe già nell’universo, ma non sarebbe più propria esclusivamente del creatore, di quell’essere unico e perfettissimo; allora bisognerebbe provare che l’universo non fosse quello che lo credono i panteisti e gli spinozisti, cioè dio esso medesimo; ovvero, che l’universo essendo infinito di estensione, non potesse essere infinito di tempo, cioè eterno, stato sempre e sempre futuro. Nel qual caso non avremmo più bisogno di un altro ente infinito. Il quale sarebbe ignoto e nascosto: dove che l’universo è palese e sensibile (7 aprile, Sabato di Passione, 1827, Recanati). Chi vi ha poi detto che esser infinito sia una perfezione?” (Zib. 4274-4275).
Pensiero severo e lucido col quale ci pare che l’ateismo leopardiano stia per emergere nello stato d’incunabolo e venire alla luce del sole.
Ateismo e ragione
Si è detto che il peccato di Adamo, che gli apologisti della Religione ed i teologi chiamano con termini diversi “peccato originale” o “caduta originaria”, è assunto nella sua interpretazione del Genesi dal Leopardi come un prodotto della ragione, facoltà che diviene radice della corruzione e della infelicità dell’uomo. Questi a sua volta raggiunge il maggior grado di perfezione dal momento che la sua conoscenza cattura l’impotenza ed il danno causato dalla ragione medesima, la quale consente di richiamare l’uomo, per quanto è possibile, al suo stato naturale più equivalente alla perfezione primitiva. Tuttavia quello stato resta sempre la migliore condizione possibile che l’uomo possa sperare di conseguire in questa vita. Gli anni in cui Leopardi attende con maggiore impegno alla sua opera di erosione dell’ideologia cristiana, sono il 1820 e il 1821. Leggiamo difatti in Zib. 253 in data 29 settembre 1820: “(…) Ed i popoli abituati (massime il volgo) alla speranza di beni d’un’altra vita divengono inerti per questa, o se non altro, incapaci di quei grandi stimoli che producono le grandi azioni. Laonde si può dire generalmente anche astraendo dal dispotismo, che il Cristianesimo ha contribuito non poco a distruggere il bello il grande il vivo il vario di questo mondo, riducendo gli uomini dall’operare al pensare e al pregare, o vero all’operar solamente cose dirette alla propria santificazione ec. sopra la quale specie di uomini è impossibile che non sorga immediatamente un padrone”.
E in Zib. 254:
“(…) lo spirito del Cristianesimo in genere portando gli uomini, come ho detto, alla noncuranza di questa terra, se essi sono conseguenti, debbono tendere necessariamente ad essere inattivi in tutto ciò che spetta a questa vita, e così il mondo divenir monotono e morto. Paragonate ora queste conseguenze, a quelle della religione antica, secondo cui questa era la patria, e l’altro mondo l’esilio“.
Intanto Leopardi, vanificato il suo tentativo di fuga da Recanati nel 1819, sente di esser costretto a restare sempre sotto la tutela nel natìo borgo selvaggio che per lui diviene davvero una prigione. Il suo pessimismo allora si incupisce sempre più in un travaglio di vita e di pensiero.
La Santa Alleanza aveva ridotto l’Europa e l’Italia in uno stato di quiete apparente, ma in realtà l’immobilismo in cui ciascun principe teneva il suo popolo era una forma di presente viltà che soltanto il ricorso agli antichi rimuove, consentendo di vagheggiare e rappresentare la rigenerazione dell’Italia decaduta. E’ del gennaio 1820 la canzone Ad Angelo Mai quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica, una eroica rassegna di tutte le grandezze d’Italia: Dante, combattuto ma non domato dalla fortuna; Petrarca, che informa di malinconia la sua lirica, e la malinconia è vita perché strazia meno della noia; Cristoforo Colombo, discendente dai liguri ardimentosi; l’Ariosto, custode del dono della immaginativa e delle leggende cavalleresche che, dopo le favole mitologiche, schiudevano novella fonte di poesia e di illusioni; Tasso, che suggella la vanità di tutte le cose, tranne che del dolore; ed infine l’Alfieri, che visse disdegnando e fremendo più per la viltà degli Italiani che per l’oppressione della tirannide.
E Nelle nozze della sorella Paolina, la canzone del 1821, permane il contrasto tra le età antiche e la obbrobriosa età moderna con la rievocazione della giovinetta sposa di Sparta che cingeva al fianco del suo compagno il fido brando e poi spandea le negre chiome, Sul corpo esangue e nudo Quand’ei reddìa nel conservato scudo, o di Virginia romana, che il padre uccise per sottrarla alle turpi voglie del decenviro Appio Claudio, mentre nell’altra canzone, Ad un vincitore nel pallone, sempre del 1821, la rievocazione dei giuochi greci e romani ha la forza di alimentare la vita caldeggiando gli ideali di giustizia, di gloria, di virtù e di amor patrio, le speciosissime larve, che sono carne e sangue della filologia leopardiana in quegli anni ed opera di rigenerazione civile tesa a fermare gli uomini al di qua della bassezza e della decadenza dei tempi, quasi dono e soccorso della natura.
Ci pare che le canzoni che abbiamo passato in rassegna, invero, non circoscrivano un significato strettamente civile, ma possano essere assunte come un documento di una disperazione giovanile (Leopardi ha appena 23 anni) molto più vasta, che nasce dalla esperienza di una vita inamena e dal senso dello squallido nulla.
Un delirio spiritualista intossicava in quegli anni persino i filosofi della più illuminata nazione moderna come la Francia (Lamennais, De Maistre, Chateaubriand) e Leopardi scava nell’epistolario solchi di pensieri dolorosi ed amari. “(…) [giudico] i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose, sia sempre giustamente giusto e vero” (lettera al Giordani da Recanati 6 marzo 1820), ed il 28 agosto dello stesso anno ecco un disperato e sconsolato, ma perentorio giudizio sulla società contemporanea in una lettera a Pietro Brighenti: “(…)…Dite benissimo dei nobili, che sono il corpo morto della società. Ma purtroppo io non vedo quale si possa chiamare il corpo vivo oggidì, perché tutte le classi sono appestate dall’egoismo distruttore di tutto il bello e di tutto il grande; e il mondo senza entusiasmo, senza magnanimità di pensieri, senza nobiltà di azioni, è cosa piuttosto morta che viva (…)”.
Intanto registriamo che l’erosione teologica e pragmatica del Cristianesimo, dal punto di vista dello stile, è rappresentata dal Leopardi per paradossi e per diseguaglianze.
L’incivilimento è conseguenza del Cristianesimo, che per contrasto è nemico del progresso; l’uomo è fatto per le cose le quali -insegna la Religione- tuttavia non valgono nulla.
Sono, queste che abbiamo indicato, alcune aporìe del Cristianesimo rivelate da Leopardi grazie ad un uso della ragione cresciuta e modificatasi al di là dell’essere ragionevole per natura. Il Cristianesimo, per esempio, ha ricevuto ed imitato dal mondo antico le feste popolari, ma di esse altro non è restato che le feste religiose le quali, rispetto ai giochi greci e romani, non possono configurarsi come una istituzione tutta di vita, fonte di grandezza e sprone all’attività, ma interesse soltanto di questo o di quel luogo in particolare, anche se consacrare ciascun giorno alla memoria dei suoi Eroi è un merito che al Cristianesimo va riconosciuto. Eppure le feste del popolo Ebreo, oltre che presso tutti i popoli antichi, sono state tutte religiose perché la religione era strettamente legata alla storia della nazione e l’origine ed il progresso del culto si confondevano e si confondono con l’origine ed il progresso della nazione e così la gloria della Religione si confonde con quella della nazione medesima.
Sono postille, quelle qui riferite, prodotte da lunga meditazione e profonda escavazione intellettuale, registrate nello Zibaldone rapsodicamente per tutto l’anno 1821. Esse guidano chi studii quelle pagine a scoprire improvvisamente concetti stringati e concisi da cui per ragione Leopardi enuclea pensieri fibrosi in una prima lettura, ma subito dopo toccati da efficacia espressiva di energia intellettuale. E’ il caso, per esempio, del concetto di aseità, qualità dell’essere che ha in se stesso la ragione della propria esistenza, intorno al quale Leopardi verga (in Zib. 1615 e seg.) il 3 settembre 1821 i motivi essenziali del suo ateismo.
Se “Le cose non sono quali sono, se non perch’elle sono tali“, non v’è né si può immaginare ragione anteriore ed indipendente dall’essere e dal modo di essere delle cose. Immaginare un Essere necessario presuppone che La ragione [sia] in Lui stesso, cioè la infinita sua perfezione. Poiché nessuna ragione vi è perché sia perfezione quel modo di essere che noi ascriviamo all’Ente come più perfetto degli altri modi possibili, bisogna cercare una ragione assoluta ed indipendente dal modo in cui le cose sono, altrimenti l’Ente non può essere necessario. L’obiezione che Il suo modo di essere è perfezione perch’egli esiste così, postula che la stessa ragione valga per tutte le altre cose e modi d’essere. Tutte egualmente perfette e tutte egualmente necessarie. Ecco allora che l’aseità o è un’utopia o compete a tutte le altre cose possibili. Gli apologisti della Religione ed i teologi oppongono a questa tesi lo Spirito che conterrebbe in sé tutta la realtà delle cose e perciò è più perfetto della materia, non si può distruggere e non ha parti.
Chi argomenta così, salta a piè pari il fatto essenziale per il quale lo Spirito medesimo è parola la cui sostanza, che non è materia, non si può concepire perché al di là della materia non si può concepire in idea una qualsiasi forma di essere.
Se dunque tutto è posteriore all’esistenza, non abbiamo altra ragione di riferire la prerogativa dell’assoluto al vero, al buono, al cattivo, tranne che il credere che le nostre idee avrebbero un fondamento universale, eterno ed immutabile ed indipendente, ma fuori da ogni ordine di cose, a patto però che l’intelletto sia in grado di concepirle, il che non è dal momento che fonte di esse idee sono le sensazioni e le assuefazioni, radice dei nostri giudizi. Essendo quindi acquisite le sue idee e non innate, l’uomo può e deve perfezionarsi da sé a condizione che egli ammetta, dal momento che le cose sono, che esse debbono avere una ragione sufficiente proprio perché potevano non essere od essere altre e diverse.
Negate le idee innate, negata la necessità dell’assoluto, tutto è posteriore all’esistenza, e poiché fuori della materia ogni facoltà dell’intelletto è spenta, bisogna prendere atto che nell’ordine di cose proprio della nostra conoscenza, nulla nel mondo può accadere senza ragione sufficiente. E qui emerge il ruolo universale dell’aseità.
Essa compete a tutte le cose esistenti e possibili e poiché, come è stato dimostrato, l’aseità nega la necessità e quindi l’assoluto delle cose, dobbiamo invece ammettere che essa ne custodisca la possibilità e con essa perciò la qualità che ciascuna cosa possibile abbia in se stessa la ragione della propria esistenza. Nessuno più dell’uomo può verificare questa verità ma, partendo da se stesso, a questa condizione: che egli si appaghi di uno stato di civiltà media dove prevalga la natura per quanto è compatibile con la ragione e non si lasci esso uomo corrompere dal privilegio di essere, in qualità di signore del regnum hominis, il più vivente tra i viventi ed ecceda i limiti dell’umano. Aveva scritto il Leopardi in Zib. 1341-1342, sotto la data del 18 luglio 1821: “In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tale modo ec. E tutte le cose sono possibili, cioè non v’è ragione assoluta perché una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o quel modo ec. E non v’è divario alcuno assoluto tra tutte le possibilità, né differenza assoluta tra tutte le bontà e perfezioni possibili.
Vale a dire che un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, o mai fu, o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi né potendo avere il menomo dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale (…)“.
A distanza di undici anni, il 16 settembre 1832, lo scetticismo di Leopardi nei riguardi dell’uomo e della sua idoneità ad inclinare verso l’opera dei lumi resta in piedi, se noi possiamo leggere nel terzultimo pensiero che egli fissa in Zib. 4525 (lo Zibaldone si chiuderà di lì a poco, a Firenze il 4 Dicembre 1832) il seguente giudizio, quasi un epigramma sconsolato, ma vero: “Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte“.
[- Antropologia di Leopardi e radici del suo ateismo, in “la Città”, anno V, n. 10, 1997, p. 6. – Ateismo e ragione in Leopardi, inedito.]