Salvatore Toma, Poesie (1970-1983)

Lorenzo Antonazzo compie un’analisi delle prime opere di Toma ristampate in quest’edizione con uno scritto dal titolo «Parole che taci/ squillare già vedo»: percorsi di lettura sulle prime opere di Salvatore Toma»: nell’esordio del 1970, Poesie. «Prime rondini», il poeta affronta i dissidi giovanili con l’ambiente scolastico e i genitori, e per questo si stabilisce un contrasto tra le proprie ambizioni letterarie e un ambiente famigliare che non riesce a concepire il temperamento del poeta né la sua passione precoce per la scrittura. Una sordida inquietudine regge la seconda raccolta di Toma, Ad esempio una vacanza (a Babi), pubblicata due anni dopo benché concepita nello stesso anno della prima: il discorso assume connotati decisamente più carnali, le composizioni presentano un lessico estremo e ruotano attorno al sesso, cosa che non evitò al poeta una certa fama di giovane dissoluto in paese. Per Antonazzo il poema va letto alla luce di una dicotomia per la quale sessualità e peccato deragliano il giovane Toma fra attrazioni morbose e profondi sensi di colpa, dettati ancora una volta da una moralità opprimente e scaturita dall’ambiente famigliare; secondo De Donno (come riporta il già citato contributo di Giorgio) il motivo va rintracciato nella «misoginia della cultura contadino-patriarcale e dei lazzi maschilistico-goliardici» (p. 381). Sia dalle opere menzionate che dalla raccolta Poesie scelte (1977) Antonazzo estrapola alcuni testi che testimoniano quel dialogo ininterrotto e già menzionato tra poeta e ambiente naturale, stabilendo una distanza abissale tra l’aridità del quotidiano e la quiete profonda della natura degradata dall’avvento dell’uomo; per questo motivo essa, nella sua pura immanenza, è reificabile solo nella dimensione onirica, e dunque, secondo Antonazzo, «la pietà che un tempo soleggiava in pieno giorno ora abita dietro le porte della notte, apparentata con la morte» (p. LVI).

Termina l’analisi delle opere pubblicate in vita da Salvatore Toma un contribuito di Annalucia Cudazzo, L’«odore selvaggio» dell’ultimo Toma. Vivere (o morire) per ritornare all’autentico, che qui individua un’acuita sfiducia nell’umanità e un bisogno sempre più impellente di distacco, sebbene il poeta non rinunci mai a scagliarsi con forza contro quelli che considera i responsabili di una crisi morale sempre più sconcertante. In Un anno in sospeso (maggio 1977- luglio 1978), quarta raccolta dell’autore, Toma seguita (con la consueta ironia) in un processo che vede coinvolte figure più che mai distanti dal suo modo di agire e vivere, come gli eruditi critici letterari, gli scrittori di successo, ma soprattutto i fautori di ciò che appare ai suoi occhi un vero e proprio genocidio animale; dunque macellai, vivisezionisti, operatori nel campo della moda, figure contro le quali Toma sfoga tutta la sua frustrazione e rabbia, in attesa di una redenzione dai toni decisamente apocalittici. Sullo stesso piano, ma con un’evoluzione dal punto di vista tematico e discorsivo, si sviluppa la raccolta successiva, Ancóra un anno (1981), in cui accanto al topos della natura come elemento minacciato dall’uomo si riscontra anche un’inedita attenzione verso quelle realtà minoritarie che hanno subito una violenta opera di civilizzazione, come gli indiani d’America, a cui si contrappone lo squallore frenetico della città industriale; da esse Toma preferisce rimanere a debita distanza, ricercando al contrario un impossibile ritorno allo stadio primitivo, e da qui la grande passione verso gli esseri animali, i volatili su tutti, sempre più presenti nella sua poesia. In maniera del tutto analoga è vissuto il rapporto con il sesso che, se nelle prime raccolte appariva come una pratica peccaminosa e disturbante, adesso, in età più matura, pare sperimentata da Toma con una rinnovata gioia; difatti i componimenti di questo periodo formano un variegato e vivacissimo affresco di donne amate o desiderate. Per Cudazzo la raccolta è «una vera e propria fenomenologia sull’eros» (p. LXXII), benché su di essa sopraggiunga l’ossessione per la morte e soprattutto il tema del suicidio, che per Toma costituisce sempre una scelta deliberata dell’uomo e non un atto di estrema debolezza. È proprio nell’ultima opera pubblicata in vita nel 1983, con un titolo, Forse ci siamo, che suona come un ambiguo annuncio, che la riflessione sulla morte si fa ancora più intima e assume la forma di un memoriale ultimo, dove il poeta ripercorre una vita vissuta da ribelle, cercando di esortare gli uomini a un’esistenza pura, lontana dalle corruzioni materiali; una purezza d’animo che per Toma pare identificarsi nella figura della moglie, la «donna favolosa» che nell’omonimo componimento opera da specchio ideale dell’autore e a cui rivolge tutto il suo rammarico per un’incomprensione di fondo, derivata da quel suo modo «naturale» e intemerato di affrontare la vita.

[“Oblio”, 38/39, X, 2020]

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