Uno straniero nella propria lingua. Scritti per Carmelo Bene

Carmelo Bene, Cathy Berberian, Demetrio Stratos (Palazzo delle Esposizioni, 2019, Roma). Risponde a queste esigenze la scelta di porre in apertura il saggio di Marco Capriotti, che esamina la costante dello spettatore e del cronista (mentre Bene concepisce soltanto il critico ‘estetico’ di wildiana memoria) come bersagli privilegiati del suo fare artistico, non per sfoggiare una vis polemica che avrebbe spesso portato la critica più distratta ad accostare la figura di Bene a quella del cabotin, riducendone la rigorosa e sofferta ricerca in esercizio d’istrionismo, ma per una riflessione profonda che muove i passi dalla filosofia nicciana e dalla psicanalisi lacaniana; per Capriotti queste due costanti permangono fino agli ultimi happening televisivi, tra tutti le partecipazioni al Maurizio Costanzo Show, in cui Bene, ponendo in esergo l’impossibilità comunicativa tra sé e il pubblico in sala, avrebbe tradotto e riproposto la recisione del dialogo tra attore e pubblico già sperimentata in teatro.

Nel comporre una ricognizione generale delle opere scritte, Franco Vazzoler indaga sui suoi rapporti con l’editoria, soprattutto degli anni Sessanta, quando cioè il giovane attore e regista dava alle stampe i primi romanzi inediti (Nostra Signora dei Turchi nel ’66 e Capricci nel ‘69) presso l’editore Sugar, che avrebbe scommesso proprio su di lui per competere con quelle case editrici poi consolidatesi maggiormente nel tempo, come Feltrinelli ed Einaudi, con cui in seguito Bene pubblicherà con la prima L’orecchio mancante (1970) e A boccaperta (1976) con la seconda; l’autore offre una prospettiva interessante proprio su una sezione de L’orecchio mancante, che consta della stesura di un progetto cinematografico su La signorina Felicita di Gozzano; secondo Vazzoler si tratterebbe di una vera e propria «parodia del cinema italiano» (p. 29), in cui si riscontrano riferimenti (più o meno espliciti e spesso in chiave parodica) ai registi più in voga del tempo; non solo, ma dal carattere inequivocabilmente letterario dell’opera ne scaturirebbe «una parodia metacinematografica che utilizza il cinema per una parodia della metaletteratura, quasi una anticipazione del Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore» (p. 30), a rimarcare la rilevanza del Carmelo Bene scrittore nel panorama letterario italiano.

Il densissimo saggio di Patrizia Fantozzi esamina la poetica del ‘depensamento’ e dell’anelamento al ‘nulla’ nella produzione cinematografica dell’artista, mutuata dallo studio della tradizione mistica dei santi (fra tutti Juan de la Cruz) che Bene riversa fin dagli esordi in uno dei suoi soggetti più celebri, ossia San Giuseppe da Copertino, personaggio citato in Nostra Signora dei Turchi e su cui è plasmato il protagonista del romanzo, poi soggetto principale nel già citato A boccaperta; l’autrice sottolinea come queste costanti siano ravvisabili in tutta la produzione cinematografica di Bene, caratterizzata da una manomissione dell’immagine filmica in quanto medium comunicativo e rappresentativo da abbattere; esempio lampante di questa soppressione di tipo iconoclasta è il film Salomè (1972), a cui è dedicata buona parte del saggio. Chiude questa prima sezione un estratto da Lezione su Carmelo Bene (MT/E, Macerata, 2002) di Maurizio Boldrini, che indaga sulle tecniche operatorie adoperate sulla scena; si tratta di un intervento di tipo specialistico, molto dettagliato, che non potremmo qui ripercorrere senza eccessive e inevitabili approssimazioni; Boldrini affronta questioni cruciali riguardanti l’utilizzo della strumentazione fonica, del playback e della scenografia nella produzione teatrale di Carmelo Bene, dimostrando come questi elementi non contribuiscano in maniera accessoria ma determinante per perseguire quello che Boldrini individua come obiettivo ossessivo dell’artista salentino, ossia «cogliere l’anima alla fonte del suono» (p. 50).

Il secondo filone di scritti critici traccia alcune coordinate fondamentali per comprendere il sistema immaginifico e filosofico alla base della prassi beniana; questo vuol dire anzitutto indagare sui legami istituiti con altri autori e pensatori che Francesca Rachele Oppedisano delinea con successo grazie anche al suo prezioso lavoro di archiviazione presso la «Fondazione l’Immemoriale di Carmelo Bene» a fianco di Luca Buoncristiano e Luisa Viglietti (presidente della Fondazione nei suoi anni di attività). Nello stilare «la trama o la rete delle alleanze filosofiche» (p. 63) attraverso i testi di Arthur Schopenhauer, Saussure, Deleuze, Derrida, Lacan e Freud l’autrice fornisce generose indicazioni bibliografiche disseminate dallo stesso autore nei volumi da lui posseduti; oltre a ciò il contributo costituisce un compendio dettagliato della riflessione di Bene sui legami tra soggetto e linguaggio, esito di un’immersione profonda e ininterrotta nella filosofia e nella psicanalisi.

Il saggio di Oppedisano fornisce coordinate fondamentali per addentrarsi nello studio svolto da Giulia Raciti, che esamina la messa in pratica di quegli elementi nell’ambito degli «spettacoli- concerto» in cui l’attore sancisce il predominio del significante sul significato e della voce come ‘phoné’, «la quale, espropriata dal corpo, diviene febbrile schizofrenia del “soffio vitale”, ossia la condizione poetica del dire» (p. 75); a questa categoria del ‘doppio’, già analizzata esaustivamente dall’autrice nel suo volume Il ritornello crudele dell’immagine (Mimesis, 2018) Bene associa l’immagine di Narciso e dello specchio, che secondo Raciti persiste all’interno di tutta la produzione cinematografica culminando nella configurazione di un «corpo di dolore beniano» (p. 84) che trae origine dal Corpo senza Organi di Antonin Artaud. Altro leitmotiv dell’arte beniana, il «corpo-bambino», è analizzato da Bruno Ruberti alla luce delle elaborazioni teoriche già contenute ne La voce di Narciso e L’orecchio mancante e concretizzatesi in Pinocchio, soggetto più volte interpretato da Bene, che nel burattino individua il suo privilegiato ‘doppio’, emblema di un’opposizione ostinata al divenire-adulto e che riafferma, piuttosto, una condizione di beatitudine infantile attraverso cui si reifica il concetto d’inorganico freudiano.

Passando in rassegna l’ultimo gruppo di saggi, dedicati a opere specifiche, Alessandro Cappabianca pone l’accento su una trasmissione televisiva ideata da Carmelo Bene, Quattro momenti su tutto il nulla (Rai, 2001), divisa per l’appunto in quattro topoi via via affrontati dallo stesso autore (linguaggio, coscienza/conoscenza, eros, arte) e che Cappabianca rielabora a termine di una definizione più ampia del ‘Corpo’ dell’attore, instaurando così un parallelismo con Buster Keaton, al quale Bene, anche lui regista e interprete di se stesso, si era deliberatamente ispirato; in una fase successiva l’artista avrebbe perseguito invece un «progressivo non fare spettacolo, salvo che tramite la Voce» (p. 97), come già analizzato in interventi precedenti, fino a un totale venir meno del primato della vocalità stessa, che cede il passo alla «musicalità» della poesia (’l mal de’ fiori, 2000) e infine alla filosofia, disciplina che lega tra loro i Quattro momenti.

Proprio alla scrittura poetica è dedicato il saggio di Simone Giorgino, che propone una lettura critica dell’ultima opera, il poema Leggenda, pressoché coevo al mal de’ fiori appena menzionato. Giorgino evidenzia come il punto focale dell’esperienza poetica, secondo Bene, consista nel tentativo di trasferire l’oralità (dicevamo sopra, la ‘Voce’) nella pagina scritta, da cui ne deriva, considerando il decentramento del soggetto più volte affrontato nei contributi precedenti, uno smantellamento del processo comunicativo schematizzato dalla catena Mittente-Messaggio- Destinatario. Attraverso un’accurata analisi filologica Giorgino s’inoltra nel «paradosso» di questo cortocircuito comunicativo, il cui fine ultimo sarebbe quello di «risuscitare lo “scritto del morto orale”, insufflando la vita, in maniera comunque effimera, a quell’’obitorio’ di lettere che è la pagina scritta» (p. 111).

Stessa demolizione del linguaggio, questa volta cinematografico, è ascrivibile al film Capricci (1969), di cui si occupa Pietro Alcantara; difatti per l’artista leccese, anche nella sua attività di cineasta, l’obiettivo rimane la messa in discussione della comunicabilità e di quel clichè dato dal ‘voler raccontare’ una storia (come scritto da Deleuze). L’analisi del film dà occasione ad Alcantara di ritentare un confronto con Jean-Luc Godard, seppur da Bene ostinatamente rinnegato, alla luce di alcune assonanze che manifesterebbero un’’idea di cinema’ comune mutuata dalla scrittura ‘in movimento’ di Joyce, che entrambi i registi assurgono a modello attraverso cui portare a compimento l’«emancipazione del cinema dal cinema» (p. 116).

Chiude quest’ultima sezione d’interventi critici su singole opere l’ampio excursus di Armando Petrini, certamente tra gli scritti più completi sul soggetto collodiano rivisitato da Bene; in questo saggio non solo si pone l’accento sulla permanenza di Pinocchio all’interno di tutta la produzione dell’autore (si rafforza la figura del ‘doppio’ più volte menzionata), ma compie un dettagliato studio di tutte le versioni teatrali e televisive che Bene ha prodotto nei vari decenni di attività: si va dalle prime edizioni degli anni Sessanta, le più rocambolesche e irriverenti, in cui la componente anticivile è marcata anche dalla stretta aderenza ai due modelli espliciti di questa fase, Brecht e Artaud; una sorta di ‘anarchia scenica’, dunque, che si affievolisce nella versione dell’81, segnata da eventi storici che non possono che sconvolgere l’impianto dello spettacolo, adesso più ridotto nella scenografia per farne emergere, secondo Petrini, la potenzialità lirica, anche grazie all’introduzione del playback, mentre la sceneggiatura si comprime a gioco infantile e ‘masochistico’ tra il burattino e la Fata, fino agli estremi esiti decisamente più tetri e funerei dell’ultima edizione ’98-’99, non a caso a pochi anni dalla scomparsa dell’artista.

[“Oblio” 37, X, 2020]

Il volume contiene scritti di:

Marco Capriotti, Carmelo Bene e il (suo) pubblico. Teorie, aspirazioni, polemiche

Franco Vazzoler, Ancora su Bene “letterato”

Patrizia Fantozzi, «… est-ce que vous en savez quelque chose d’une Resurrection sans fin?». Quale grazia nel cinema di Carmelo Bene

Maurizio Boldrini, Estratto dalla Lezione su Carmelo Bene Francesca Rachele Oppedisano, Ricominciando a pensar Bene Giulia Raciti, Il ruminare orifiziale della phoné beniana Bruno Roberti, Carmelo Bene o l’opera bambina

Alessandro Cappabianca, CB: quattro concerti filosofici

Simone Giorgino, «Ah soltanto esser solo una voce». Leggenda di Carmelo Bene

Fabio Alcantara, Contro il cinema (di idee): un’idea di cinema. Capricci di Carmelo Bene

Armando Petrini, Carmelo Bene e Pinocchio. Storia di un burattino (e di un attore)

Paola Bertolone, Storicizzare Carmelo Bene? L’esempio della mostra Il corpo della voce

Questa voce è stata pubblicata in Letteratura, Recensioni e segnalazioni e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *