C’è il tempo del giorno, quello della notte, c’è il tempo dell’estate e quello dell’inverno, il tempo di partire e quello di tornare, il tempo di tacere e quello di parlare, il tempo di lavorare, quello di riposare.
Dice il Qohèlet: c’è il tempo di nascere e quello di morire, di piantare e di raccogliere, di ferire e di guarire, di piangere, di ridere, di distruggere, costruire, di gettare pietre e raccoglierle, di avvicinarsi e allontanarsi.
C’è il tempo di cercare e quello di abbandonare, quello di conservare e quello di buttar via, il tempo di strappare e quello di ricucire, il tempo di amare, il tempo di odiare, il tempo della guerra, il tempo della pace.
C’è un tempo dentro di noi: insondabile, abissale, che si sottrae ad ogni tentativo di compiuta comprensione. Si potrebbe chiamare tempo dell’anima, tempo del cuore, del sentimento e della ragione annodati nella sintesi essenziale dell’esperienza unica e irripetibile di esistere, in una condizione che contempera la memoria e la proiezione nel futuro vissute e interpretate attraverso l’emozione dell’istante che trascorre.
Forse il senso che più conta è quello che appartiene al qui e all’ora che viviamo, il senso della relazione con il nostro tempo e con quello di chi è intorno a noi e dentro di noi.
Intorno a noi e dentro di noi il tempo ha la fisionomia del presente, delle passioni nelle quali il presente ci coinvolge, delle occasioni d’esistere che il presente ci offre.
Il tempo che si conclude e quello che comincia non costituiscono mai una frattura, la chiusura di una porta, l’apertura di un’altra. Sono, invece, la continuità di un’evoluzione, il passo che viene dopo un altro passo.
Il passaggio da un tempo a un altro, è sempre annodato al pensiero del dejà vu e del non ancora, della retrospettiva e della prospettiva, del consuntivo e del progetto, della certezza di quello che è stato e dell’incertezza di quello che sarà, della memoria e della speranza.
Certamente ciascuno di noi sa perfettamente, per se stesso, che cosa sono gli anni e che cosa comportano: lo apprende con la conoscenza e con l’esperienza dei fatti, dei sentimenti, delle passioni, delle storie di cui è stato protagonista o spettatore, delle emozioni che ha provato e che si sono stratificate nel tempo che ha vissuto, che gli restano sulla pelle, nella mente, dentro il cuore.
Il passaggio da un tempo ad un altro non è che una percezione, un pensiero rapidissimo, un sentimento talvolta inesprimibile verso il nostro essere nell’ora che ci viene data in prestito, verso il nostro avvertire dentro e intorno il divenire degli attimi, dei giorni, il passaggio delle stagioni.
Forse il passaggio da un tempo ad un altro possiamo percepirlo soltanto attraverso il nostro divenire diversi da quello che siamo o che crediamo di essere.
Dice Martin Heidegger in “Il concetto di tempo” che la domanda “ che cos’è il tempo” dovremmo trasformarla in “ chi è il tempo?”, con l’ulteriore precisazione: “ sono io il mio tempo?”
La stessa cosa dicono gli angeli fatti uomini dei film di Wim Wenders.
I quasi adatti di Peter Hoeg è un romanzo sul tempo: sulle sue espressioni e sulle sue contraddizioni, come quella principale, strutturale, del tempo lineare e del tempo circolare.
Il tempo lineare – dice Hoeg- deve essere immaginato come una lama infinitamente grande che sbuccia l’universo e contemporaneamente lo trascina con sé, lasciandosi dietro una striscia di passato infinitamente larga, con davanti il futuro, mentre il presente è il filo della lama.
Per il tempo circolare, invece, il mondo rimane più o meno lo stesso. Le mutazioni intorno a noi sono, o generano, ripetizioni. Poi aggiunge: “ Il tempo è anche qualcosa che contribuiamo costantemente a creare. Come un’opera d’arte”.
Ecco, allora, forse è così: il nostro tempo è un’opera d’arte. Forse l’unica opera d’arte che un uomo possa realizzare.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 26 giugno 2022]