Manco p’a capa 99. Una storia senza morale


Invece di fare il portuale, come il resto della mia famiglia, ho frequentato l’Università e ho persino intrapreso la carriera universitaria. Da Genova, la vincita di un concorso nazionale a professore associato mi catapultò a Lecce, nel 1987. Mi fece impressione vedere scritte sui muri della città: Bari merda. E quando mi capitò di andare a Bari trovai considerazioni simili su Lecce da parte dei baresi. Per i leccesi, poi, tutti quelli che non sono di Lecce-Lecce sono poppeti. Deriva dal latino, mi spiegarono: post oppidum. Sono quelli che vivono al di là delle mura. Non parliamo di quelli che vivono nei pressi di Santa Maria di Leuca: quelli del Capo. Ho abitato per tre anni a Porto Cesareo (di cui ora sono fiero di essere cittadino onorario) e lì imparai, dai pescatori, che i peggiori nemici del mare sono i pescatori di Gallipoli. Per i gallipolini, stranamente, è vero il contrario e sono i cesarini ad essere una iattura per il mare. Anche se entrambe le marinerie concordano nell’ascrivere i peggiori disastri alla pesca di origine calabrese. Ma anche quelli di Molfetta non scherzano…
Ho vissuto un anno in California, a Bodega Bay, vicino a San Francisco. Considerata un posto di strambi da chi vive a Los Angeles. Ho anche vissuto per un po’ in Papuasia, e lì le guerre tribali tra villaggi vicini sono all’ordine del giorno. Ora vivo a Napoli e molti napoletani non sopportano il Presidente della Regione, De Luca, perché è… di Salerno. Dicono che favorisca la sua città, a scapito di Napoli.
Non sono ancora riuscito a trovare qualcuno che non pensi di essere nato nel posto migliore del mondo. Anche quelli che scappano, poi tornano a cercare le loro radici. Frank Zappa era fierissimo di essere italiano. Anzi: siciliano. Anche se non capiva una parola di italiano.
Insomma, il vecchio detto “tutto il mondo è paese” mi pare funzioni abbastanza bene. Mentre non funziona “moglie e buoi dei paesi tuoi”. L’accoppiamento tra persone che appartengono allo stesso ceppo (il paese) può dare risultati non lusinghieri, mentre la confluenza di patrimoni genetici lontani spesso produce individui di grande “qualità”. Mi piace pensarla così, da frutto di un incrocio tra una toscana e un genovese.
Un mio amico belga, con cui ho passato mesi su un’isoletta della Papuasia, mi racconta che le cose vanno male, laggiù. Stanno circolando i kalashnikov, al posto di archi e frecce, e le scaramucce di un tempo hanno ora esiti ben differenti e tragici. https://www.theguardian.com/world/2021/feb/27/tribal-conflict-worsens-in-papua-new-guinea-as-firearms-rewrite-the-rules
Penso a cosa succederebbe in Italia se circolassero le armi come circolano in USA (e in Papuasia). A quanto pare il timore di un conflitto nucleare non è più un deterrente assoluto che impone cautela, e stiamo reinnescando la corsa agli armamenti, con uno spirito tribale che non è mai riuscito ad evolvere in altro. Investiamo e investiremo enormi risorse per costruire strumenti di distruzione del nemico: grebbani, poppeti, gabibbi, baresi e losangelesini, terroni e polentoni, musulmani e cristiani, juventini e napoletani. Quelli di “fuori” sono diversi da noi, sono cattivi, e devono essere distrutti. Siamo ancora preda di pulsioni tribali, e non ci sarebbe niente di male se l’evoluzione tecnologica nella produzione di armi non avesse soverchiato l’evoluzione culturale che, superate le divergenze, ci ha portato a incrociarci con i nostri fratelli neanderthaliani, come han fatto mio padre e suo fratello, mescolandosi con chi veniva da “fuori”. Stiamo facendo proprio come gli americani. Se esco per strada so che potrei incontrare qualcuno con una 44 in tasca. E quindi è bene che ne abbia una anche io. Pronti a far fuoco.
Questa storia non ha morale.

[Il blog di Ferdinando Boero ne “Il Fatto Quotidiano” online del 27 giugno 2022]

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