di Ferdinando Boero
Sono nato a Genova, nel 1951. Genova era uno dei vertici del triangolo industriale e attirava manodopera da tutta Italia. Non solo dal Sud. La famiglia di mia madre arrivò da un paesino della Garfagnana, Cascio. E così mio padre sposò una garfagnina. Suo fratello, lo zio Carletto, sposò una siciliana. Nel quartiere dove abitavo, un quartiere di portuali, avevano costruito lo Smistamento, dove venivano “smistate”, appunto, le famiglie che arrivavano a Genova, in attesa di una collocazione. I miei compagni di scuola erano sardi, siciliani, calabresi, campani, pugliesi. La città vecchia era popolata di prostitute, contrabbandieri che offrivano “pistole” a sprovveduti che compravano mattoni fasciati nella carta di giornale, venditrici di sigarette. I genovesi purosangue (la mia famiglia per parte di padre) usavano due parole per definire chi “veniva da fuori”: i gabibbi erano quelli che venivano dal sud, mentre i grebbani erano quelli che venivano dal nord. Tipo quelli con la faccia un po’ così cantati da Paolo Conte, che è di Asti. A dir la verità c’era anche un po’ di antipatia per chi non era proprio di Genova, tipo quelli di Sampierdarena. I genovesi “veri” stavano col Genoa, quelli “finti” con la Samp.
Per me, Genova era il centro del mondo e, essendo un porto, un po’ lo era davvero, visto che il mondo la veniva a trovare. Per un po’ fu di moda la raccolta dei pacchetti di sigarette. Andavo avanti e indietro tra via Prè e via del Campo a cercarli. Ce n’erano di stranissimi. I marinai scendevano e si addentravano nei vicoli in cerca di sesso a pagamento, fumando sigarette comprate chissà dove. E buttavano per terra i pacchetti vuoti. Perle rare.