Il tempo che va è la vera forza di un campione

E’ come un pittore che apre la finestra e guarda il paesaggio e tra quello che vede si lascia incantare da un riflesso, una trasparenza, una trascoloranza, un suono, una nebbia, e racconta l’incanto con la sua voce arrochita, con i movimenti di jazz, con i versi che impastano chansonnier e Camillo Sbarbaro. Profondità, intimità, armonia, malinconia, presenza ed assenza. Un po’ d’ironia, un po’ di taedium vitae: ogni cosa appare e scompare nella lontananza, sullo sfondo, lungo la linea d’ombra, all’orizzonte tremolante della memoria, mentre il giorno tramonta in arancione e si gonfia di ricordi che non sai, con figurazioni oscillanti nella fantasia. Paolo Conte ha ottantacinque anni, e non è vecchio. Non può essere vecchio chi in fondo un po’ lo è sempre stato. Ha detto una volta: “I solitari come me, tendenzialmente un po’ malinconici, che hanno difficoltà a vivere la superficialità delle cose, sono da sempre già un po’ vecchi”. E’ sempre stato un po’ vecchio chi è sempre stato un po’ saggio.

Avvocato in Asti fino a quando non viene folgorato sulla via del jazz da Louis Armstrong, Count Basie, Duke Ellington. A quel punto comincia un’altra vita. Scrive i primi pezzi tra la fine degli anni Sessanta e il principio dei Settanta.  “Azzurro” per Celentano; “Onda su Onda” e “Genova per noi”, per Bruno Lauzi.

Poi c’è tutta la sua attività solistica. Sempre a distanza dalle mode. Sempre in vicinanza alle passioni. Alla sua nostalgia.

Sempre in aderenza al Novecento, quel secolo terribile e bellissimo, che non è ancora passato e che per molto tempo ancora probabilmente non passerà. Un’altra volta ha detto: “L’attualità non mi interessa. Il Novecento non è quello che ho sotto gli occhi, è quello che risuona dentro di me. Nel mio piccolo, ho sempre cercato di inseguire lo spirito di questo secolo. Il Novecento è qualcosa di impalpabile, ha tutto un suo gusto ambiguo, che gli dà un fascino speciale. È un secolo molto difficile, perché pieno di equivoci. Non avrei voluto vivere in un secolo diverso da questo”.  Paolo Conte tesse metafore, allegorie, visioni. Le sue immagini slittano in continuazione verso sfere di significati ulteriori. Albe e notturni. Descrizioni e introspezioni. Assorbe forme di paesaggi e da esse si fa assorbire. Lo sguardo  si fa ritmo; si fa ritmo l’emozione, la sensazione, il trasalimento. Soprattutto si fa ritmo il respiro. Si fa ritmo il sogno, il desiderio, il ricordo. Ogni canzone di Paolo Conte è un viaggio in treno. I paesaggi che scorrono dal finestrino si confondono con quelli che scorrono nella memoria. Il profilo di un  monte. Il profilo di una nuvola. La campagna, il mare. I palazzi. Sembra tutto scontornato, tutto senza limiti. Qualcuno sale. Qualcuno scende. I discorsi si alternano ai silenzi. Sguardi distratti intorno. Sguardi profondi dentro. Il sogno in dormiveglia.

Campioni non si nasce, si diventa, e spesso, o forse sempre, se lo si è diventati si capisce quando è il tempo di uscire dal campo  e lasciare il posto a colui che verrà dopo. Un altro c’era prima, un altro verrà dopo. Quello che resta e che conta è il mestiere, l’arte. Dell’arte, gli uomini sono soltanto servitori, per un tempo limitato. Probabilmente non si può essere campioni senza la saggezza che la gloria passa in fretta; passa molto in fretta. Probabilmente non c’è grande campione che tutte le volte che vince qualcosa non pensi alla volta in cui sarà un altro a vincere, non pensi che ci sarà una gara durante la quale la forza delle gambe non corrisponderà all’intenzione, e il filo del traguardo sembrerà irraggiungibile.  Non si può essere grandi campioni, se non si è anche grandi uomini. Se non si è grandi uomini, si può essere soltanto ronzini fortunati, per un giorno, un’ora  e basta. 

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 19 giugno 2022]

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