Nelle capitali delle proprie geografie. Su «Catumerèa. Versi multilingui a sud del sud» di Leo Luceri

Ci si riferisce all’oltrecanone quando la soggettività, nel farsi e nel dirsi si colloca in tutte le magie leggere e profonde dell’evoluzione, in tutte le inedite rappresentazioni o nelle frammentarieta’ nate nei e dagli odierni nomadismi.

Luceri ci sposta in quei saperi della ricerca letteraria che sempre meno, oggi, trova spazio nelle sedi istituzionali. L’oltrecanone di Luceri guarda con attenzione ciò che viene prodotto da posizionamenti e interrogazioni critiche che nascono da spostamenti di sguardo. Luceri ci accompagna nel luogo che evapora, nel luogo che è in ricerca di confini e, in ciò che si contamina e contamina alla ricerca di nuovi significati dello stare.

Oggi, il lavoro intorno al mutamento del canone letterario ci obbliga ad atteggiamento presocratico di meraviglia e curiosità per l’accadimento. Ci indica le possibilità di cambiamenti spaziali in cui si colloca corpo e sguardo di chi produce testo. Entrare nelle forme e nei contenuti dell’oltrecanone indica il “cosa” comporta saper leggere-saper scrivere. È domanda sul significato, oggi, dell’andare. L’oltrecanone ci colloca in uno spostamento di prospettiva e ci svela modi dello stare al mondo e modi attraverso cui la Vita si significa al di là di ogni precarietà. Ci indica, anche, la marginalizzazione del centro e la molteplicità dei centri nella loro dimensione di parzialità e confine provvisorio producente parola, senso e memoria.  L’Oltrecanone ha a che fare con la velocità degli spostamenti e delle soste nei non-luoghi che si definiscono nel multisenso del pensiero sempre dislocato.

Intrigante questa Poesia ad “insulae”. Poesia adagiata intorno a più sorgive. Poesia dialogante con il confine. Poesia che apre a molteplici momenti e modi della creatività. Poesia in cui il bordo diviene ciglia vibratile di contatto con l’altro da sé e non filo di difesa. E le lingue dialogano. E le lingue si dicono e si ri-dicono affacciandosi sulle loro stesse connessioni. E, ognuna, mostra, come primadonna, il proprio ritmo, la propria sinuosa movenza, il proprio legame alla terra che, in Luceri, diviene terra di pensiero.

Accattivante l’incipit: un dialogo intimo con una Madrid che ha accolto passi e amori di Bodini, una Madrid veloce, lontana da sentimentalismi. Una Madrid veloce e di linea retta in cui scenari e volti mutati segnano odierne diversità e mutamenti dai tempi di Bodini. Bodini verso cui incalzano le domande dell’Autore che parte dalla lucida consapevolezza del liquefarsi dell’epoca storica in cui Bodini è vissuto. Sono domande che si mostrano come parole sciolte nel pensiero di un dialogo immaginario gestito all’interno del back-stage della poesia lì dove immagini e affondi prendono forma. A Sud volteggiano emozioni come panni stesi al sole: il ricordo di Eugenio Barba, di Antonio Verri. I luoghi di Luceri sono luoghi molli come cera, si lasciano improntare da volti ed eventi. Sono luoghi dal profilo duttile, profilo che gioca con la memoria, profilo che fa e disfa confine e parzialità di orizzonte, sono luoghi pronti ad indicare il proprio essere non-luogo, il proprio dileguare nella stanza accanto del verso. Stanza accanto fuori dalla storia.

Da un vecchio Grundig appena acceso, l’onda di Radio Tirana; voci per indicare separazione e unione tra cime innevate e “terra bassa” in cui immobilismo e lucore fanno da padrone. Emerge Bodini, ma anche Nettario abate-letterato a Casole, si fa innanzi Teodora che si stacca dal fondo musivo, Pantaleone che gioca con l’identità proto cristiana e cristiana. I libri, nella silloge, sono in continuo dialogo con la vita, Poesia che lascia emergere la profonda fusionalità tra parola scritta e respiro di vita, è poesia che mostra un continuo dentro-fuori fatto di essenzialità, segni, luce, immobilità e ritorni. Ritorni e pennellate come quelli delle betisse, del barocco, delle scogliere, dei bar nei porti, dei deliri, delle viuzze, delle stanze, dei tramonti, delle città, dei luoghi.

È poesia che indica lo spazio della cura di sé, lo stare all’interno di quella soglia che trascina verso un altrove e che è, già essa, viaggio, andare. Ogni andare preceduto da un moto dell’anima che è spostamento dal conosciuto, ogni moto è viaggio in avanti ma, contemporaneamente, salto nomade verso il passato. In  contesti nuovi le presenze si modellano e tutto si trasforma in nuovo vedere, nuovo affetto, nuovo toccare. Lo scorrere dei fotogrammi talvolta pare incepparsi colmandosi di ritorno della memoria, nostalgia per il non accaduto, nostalgia per la possibilità non vista. È questo l’angolo del fermo, l’angolo in cui la provata meraviglia si mischia a ciò che è irrimediabilmente perduto e la stratificazione procede, a tratti veloce, velocissima slittando tra attese, nostalgie, volti, gesti, estraneità.

Poi, di nuovo, tutto rallenta e il verso prende passo lento, un ralenty dell’anima che chiede sosta nell’intimo del gesto usuale. Nel lento si affaccia il desiderio dell’attracco, la richiesta della vicinanza. Talvolta lo sguardo diviene esterno e osserva, nella quiete, il movimento di volti e intenti.

È poesia sensuale gonfia di ciò che non nomina mai ma che preme sotto il verso facendosi desiderio e respiro di cambiamento. Versi dedicati a Kavafis, a Celati, versi-dialogo con un universo interiore che randomizza ogni oggetto, ogni parola, dislocandola. È poesia che trasforma oggetti togliendo loro materialità e lasciandoli dileguare nella direzione della loro storia o della loro radice archetipale lì dove inizia un movimento che affonda nella radice dell’essere e, a cui, la parola porge fianco per mostrarsi. E’ poesia.

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