Tolemeo, Milinda, Ašoka. Re, regalità e culture a confronto

La Lettera di Aristea a Filocrate, generalmente riconosciuta di matrice ebraica-alessandrina e forse preferibilmente databile alla fine del II o al I secolo a.C., è un resoconto immaginario della iniziativa presa dal re ellenistico d’Egitto Tolemeo II Filadelfo (282-246 a.C.), su sugge­rimento del suo bibliotecario Demetrio Falereo, di affidare a Settan­tadue dotti Ebrei inviati dal Sommo Sacerdote di Gerusalemme la traduzione in greco della ‘Legge degli Ebrei’ (il Pentateuco) per la Biblio­teca di Alessandria, fondata dal padre Tolemeo I (305-282 a.C.) come centro di raccolta e di cataloga­zione sistematica della letteratura e della sapienza universale. La richiesta del re al sacerdote diel tempio di Gerusalemme di inviare ad Alessandria i dotti per la traduzione è preceduta dall’atto liberale di un decreto con il quale Tolemeo ordina la liberazione degli schiavi Ebrei in Egitto.

I capitoli 187-300 della Lettera di Aristea contengono un vero e pro­prio trattato Perì basileias, dove il tono morale e sentenzioso domina larga­mente rispetto alla riflessione politica sulla regalità. Nel corso di sette banchetti di congedo, tenuti in sette giorni in onore dei Settan­tadue dotti Ebrei, il re Tolemeo rivolge loro settantadue domande sulla regalità e sulla condotta del re; le settantadue risposte dei saggi, enun­ciate come sen­tenze, sono generalmente articolate in forma binaria, in modo che la parte di contenuto laico soddisfi le aspettative di un Greco e la tradizione della sapienza greca, e la parte di contenuto religioso, in cui dio è posto a principio e misura di tutto, soddisfi l’etica religiosa ebraica monoteista.


Moneta aurea di Tolemeo II Filadelfo con la moglie Arsinoe II.

Tolemeo dichiara alla fine di avere tratto giovamento dalla dottrina esposta dai saggi sul modo di regnare. Tuttavia le domande sembrano poste dal re (e dall’autore della Lettera) non tanto con l’intento di trarre nuovi insegnamenti sulla regalità quanto piuttosto per fare apparire i suoi interlocutori come maestri di saggezza, per verificare nelle rispo­ste la rinomanza di una ‘saggezza straniera’ come quella ebraica e misu­rare la rispondenza di quella con la sapienza greca sulla regalità.

È significativo che, insieme con il re Tolemeo, anche i filosofi greci immaginati presenti ai banchetti, fra cui Menedemo d’Eretria, trovino nel principio divino il punto di convergenza fra sapienza greca e sapienza ebraica. È anche significativo il silenzio su origini e onori divi­ni del basileus; silenzio tanto più implicitamente eloquente in un inter­locutore Ebreo per nulla incline a concessioni in questo campo. Tole­meo Filadelfo aveva infatti fondato il culto dinastico del padre Tole­meo I Soter, e la sua fin troppo esplicita domanda da re ellenistico su quali degni segni di gra­titudine dovessero essere tributati ai genitori era stata in pratica banaliz­zata ed elusa dai saggi con la risposta: «Non procurando loro alcun dispia­cere», mentre la risposta attesa dal re elle­nistico era evidentemente quella di tributare onori divini al genitore fondatore della dinastia dei Tolemei, secondo la prassi seguita da tutte le dinastie ellenistiche. Perciò la Lettera di Aristea non solo dimostrava che i saggi Ebrei erano in grado di rivaleggiare degnamente con i Greci nel ruolo di filosofi consiglieri del re, ma anche esprimeva l’idea di un Giudaismo ‘ellenizzato’ che si incontra con l’Ellenismo grazie al buon re Tolemeo. Inoltre, le idee sulla regalità for­mulate dai saggi Ebrei e sulle quali Tolemeo puntualmente esprime il suo scontato consenso, sembrano per lo più destinate a rassicurare gli Ebrei d’Egitto, nume­rosi e influenti soprattutto nella comunità di Alessandria, che la rega­lità greca di Tolemeo, rispettoso e sollecito dell popolo ebraico in un regno multietnico, non era in contrasto con i canoni morali e religiosi degli Ebrei. Il buon re definito nella Lettera di Aristea deve dunque imitare la magnanimità di dio, non abusare del potere, conformarsi alle leggi, vigilare perché i funzionari non commettano soprusi, garantire ai sudditi pace e giustizia.

In questa linea di incontro o di ricerca della compatibilità e della convivenza fra Giudaismo ed Ellenismo, non a caso elaborata ad Ales­sandria e qui persistente anche oltre l’età ellenistica, ben si comprende come Filone, eminente e impegnato rappresentante della cultura e della comunità ebraica alessandrina in età giulio-claudia, consapevol­mente riprenda e rielabori temi propriamente ellenistici e raffiguri Mosè come legislatore, sacerdote e profeta, ma anche come basileus ideale che, a differenza dei re ellenistici, non assume la regalità con la forza degli eserciti e con l’intento del dominio, ma la riceve come investitura divina per le sue virtù e per il bene del suo popolo[5].

Limitandosi a osservare lo scarso numero dei trattati Perì basileias prodotti ad Alessandria nel III secolo a.C.[6], si rischia di perdere di vista un dato di fatto essenziale. La serie delle riflessioni sulla basileia e sul basileus, da Ecateo d’Abdera alla Lettera di Aristea e a Filone Alessan­drino, fanno emergere i Tolemei e Alessandria come la dinastia elleni­stica e il luogo che sul problema del potere hanno stimolato e prodotto le elabora­zioni più complesse, particolarmente attente sia alle tradi­zioni del potere e della società in Egitto sia ai rapporti con il popolo ebraico. Nell’Egitto tolemaico la regalità non è un tema teorico di scuo­la, ma un assetto di potere che si definisce in rapporto alle principali e diverse componenti sociali e culturali di un regno multietnico. A questi principi risponderà anche l’apparente attribuzione degli aspetti faraonici alla regalità tolemai­ca nei decreti onorari adottati dai sinodi sacerdotali egiziani.

La cornice del dialogo fra re greco e saggi stranieri che caratterizza i capitoli sulla regalità nella Lettera di Aristea si riscontra anche in uno dei principali testi della letteratura e della religione buddhista, i Milin­dapañha (Le Domande del re Milinda), composto nella forma del dialogo, se­condo uno schema tipico della letteratura indiana antica che non è affatto necessario né tanto meno proficuo paragonare con lo schema dei dialoghi platonici. Pertanto, la comparazione diretta fra la Lettera di Aristea e i Milindapañha istituita dal noto ellenista inglese W. W. Tarn sulla base della comune cornice del dialogo e la conseguente ipotesi di un modello greco alle origini del testo buddhista[7], risultano alquanto artificiose e inattendibili.

Le Domande del re Milinda, la cui composizione originaria risale all’incirca alla fine del II o al I secolo a.C., sono note da una redazione in lingua pali del IV secolo d.C. e da una parziale traduzione cinese del IV-inizi V secolo d.C.[8]. I Milindapañha contengono i dialoghi etico-dottrinali svolti nella città indiana di Sāgala e in una residenza reale fra il re Milinda e il venerabile saggio buddhista Nâgasena. Milinda, con inequivocabili con­notazioni da re ellenistico, è da identificare con Menandro I Soter, il maggiore re indo-greco (165-130 circa a.C.)[9] il cui regno, originato dalla espansione del regno greco-battriano ma ormai separato da questo per una usurpazione e con una propria dinastia regnante, si estendeva dall’Afghanistan meridionale al Punjab, su parte dei territori di quello che era stato il grande regno indiano della decaduta dinastia dei Maurya (324-180 a.C.[10]).


Moneta del re indo-greco Menandro I Soter / Milinda

Autorevoli indianisti hanno espresso forti riserve sui parallelismi cercati da Tarn[11]. Si può aggiungere che alcune fondamentali diversità rendono comunque improponibile il confronto fra la sezione sulla regalità della Lettera di Aristea e i Milindapañha.

Nella Lettera di Aristea il basileus si presenta in tutta la sua opulenza e fulgore di potere ponendo ai saggi domande specifiche sulla regalità e il potere; nei Milindapañha il re rinuncia preliminarmente alla sua condi­zione autoritaria di re nella discussione per assumere quella di un semplice saggio o discepolo (pandit) che accetta il contraddittorio del dialogo ed è disposto ad ammettere i suoi errori; l’informale banchetto offerto da Milinda/Menandro a Nâgasena e ai suoi accompa­gnatori (peraltro subito dopo congedati) non ha nulla della ritualità e della fastosità dei sette banchetti offerti da Tolemeo ai saggi Ebrei, ma si configura piuttosto come osservanza del precetto tradizionale bud­dhista di offrire il cibo ai saggi in cammino che percorrono il mondo privi di mezzi dispensando la loro dottrina; i dialoghi di Tolemeo si svolgono a corte, tutti i saggi sono singo­larmente interrogati dal re e ciascuno risponde alle domande poste; i quesiti e i dilemmi proposti da Milinda/Menandro facia a facia con Nâgasena e risolti dal saggio in un dialogo a due diretto e serrato, non riguardano affatto la regalità o il potere come tale ma la sfera etica e dottrinale buddhista. Nella Lettera di Aristea il dialogo si conclude con il conforto e con il compiacimento del re circa il suo modo di regnare; nei Milindapañha il dialogo si con­clude, come era prevedibile fin dall’inizio, con la conversione del re al buddhismo, con la rinuncia al regno in favore del figlio e con il suo ritiro dal mondo. Il ritiro ascetico di Milinda/Menandro nei Milinda­pañha mal si concilia con la morte in battaglia da re guerriero riportata dalla tradizione greca (dove è pure presente la notizia, di evidente ma­trice buddhista, degli onori funebri comuni e della disputa sulla spar­tizione delle ceneri del re fra le città) e con il carattere tipicamente greco della sua monetazione, anche se la legenda monetale bilingue, in greco e in kharoshthi, denota la componente e la destinazione mista, gre­ca e indiana, della sua regalità e del regno[12] .

In definitiva, mentre la Lettera di Aristea è un testo del potere sul potere, i Milindapañha sono un testo apologetico ed edificante di conversione religiosa, con la rinuncia al potere nel mondo da parte di un potente re straniero di tradizione e cultura greca, attratto dal bud­dhismo e assimilato dalla tradizione buddhista che può avere fatto del greco Menandro/Milinda un secondo Ašoka.

Alla stessa tradizione apologetica e di conversione buddhista (ma senza la rinuncia al potere) appartengono la raccolta di leggende bud­dhiste Ašokāvadāna (La leggenda del re Ašoka), in sanscrito e con reda­zioni in pali e in cinese[13], e gli editti di Ašoka (269/8-233/2 a.C., terzo re della dinastia dei Maurya dopo il nonno Chandragupta e il padre Bin­dusāra Amitra­ghâta). Gli editti o proclami di Ašoka, incisi nei prin­cipali dialetti indiani, su roccia e su colonne, sono disseminati su tutto il territorio dell’impero indiano dei re Maurya. Ma sono superstiti anche redazioni in aramaico (la lingua ufficiale dell’antico impero per­siano) e in Greco, destinate a tra­smettere il messaggio di Ašoka alle popolazioni iraniche e greco-orientali confinanti con l’impero Mau­rya[14].

Ašoka e il suo séguito nel grande rilievo dello stupa
(tempio con reliquie del Buddha) di Ramagrāma (Nepal).

Nella vicenda storica e spirituale di Ašoka, la svolta decisiva è data dalla profonda crisi spirituale del re sconvolto dagli orrori degli im­mani massacri provocati dalla sua guerra di conquista del paese dei Kalinga nel golfo del Bengala (nell’ottavo anno di regno: 260 a.C.). Ciò lo induce al pentimento e alla conversione religiosa, a ripudiare la guerra e gli ideali del re guerriero, a scoprire come sommo ideale per sé e per i successsori non più la vittoria in guerra ma la ‘vittoria della pietà’, il pacifismo e la propaganda missionaria.

Con i numerosi editti e proclami (rupestri e su colonne), il re Piya­dassi (nei testi indiani) / Ašoka (nei testi buddhisti) / Piodasses (nelle due iscrizioni greche di Kandahar in Afghanistan) detta norme di non-violenza, di tolleranza rispettosa fra le ‘scuole di pensiero’ o ‘sette’ o comunità reli­giose, di rispetto della vita degli uomini e degli animali, di solidarietà, di continenza, di obbedienza verso i genitori, di rispetto per i maestri, per gli anziani e per i religiosi, di amabilità verso gli schiavi e i sottoposti; istituisce i ‘ministri della pietà’ che in tutte le province dell’impero si prenderanno cura delle comunità religiose e della promozione della ‘pietà’; annuncia atti di liberalità verso i reli­giosi e i sudditi; assicura tutto il suo impegno nel trattare gli affari pub­blici per il bene di tutti; esorta i funzionari che esercitano la giustizia a usare moderazione, a non disporsi all’ira e alla crudeltà. Nei ‘grandi editti rupestri’ V e XIII Ašoka si compiace per avere fatto giungere il suo messaggio di ‘vittoria della pietà’ fino alle terre e ai popoli più lon­tani, fino agli Yona (= gli Ioni, cioè i Greci e, in generale, i popoli elle­nizzati ai confini nord-occidentali dell’India) e ai suoi contemporanei re ellenistici Antioco II di Siria, Tolemeo II d’Egitto (il re della Lettera di Aristea), Antigono II Gonata di Macedonia, Magas di Cirene, Ales­sandro II d’Epiro (che dunque costituiscono riferimenti fondamentali sul versante greco per la cronologia e il sincronismo con lo stesso Ašoka).

La predicazione pacifista di Ašoka è stata anche interpretata come espressione di una ideologia antiimperialista contrapposta all’imperia­lismo dei re e degli stati ellenistici fondati e legittimati sulla ideologia della conquista[15]. In realtà, molti degli editti maggiori di Ašoka sono dislo­cati lungo l’estrema area nord-occidentale dei confini indo-iranici dell’impero Maurya. Le due iscrizioni rupestri scoperte presso l’antica Kandahar (dove si suole localizzare Alessandria d’Arachosia) in Afgha­nistan nel 1958 e nel 1963, una bilingue in greco e in aramaico[16], l’altra solo in greco (quest’ultima, con la redazione greca incompleta dei ‘grandi editti rupestri’ XII e XIII, potrebbe essere solo la parte super­stite della traduzione o della parafrasi greca dell’intera serie degli editti maggiori di Ašoka)[17], attestano che il messaggio ‘ecumenico’ e pacifista del re indiano aveva raggiunto anche i Greci d’Arachosia, in un’area che può essere stata di frontiera fra l’impero Seleucidico e l’impero Maurya, rimasta area di con­vivenza e di stretti contatti greco-iranici-indiani al tempo di Ašoka, con i Greci che conservano la condizione di élite anche nel passaggio dal pote­re seleucidico al dominio Maurya. Le due iscrizioni greche risultano re­datte con stile, vocabolario e concetti filosofici familiari al mondo elleni­stico, ma anche con stile e vocabo­lario comunemente usato dalle cancel­lerie reali ellenistiche nei rap­porti fra re e città. Ciò significa che la can­celleria multilingue di Ašoka era in grado di redigere i documenti ufficiali adattandoli alle diverse mentalità di coloro ai quali essi erano destinati, e che ai destinatari greci il messaggio pacifista e buddhista contenuto nel documento ema­nato dalla autorità maurya era adattato e presentato nella lingua greca con toni e modalità conformi alla stessa cultura greca (ma l’adatta­mento greco è anche rivelatore delle ‘differenze di mentalità’ e non è esente da ‘distorsioni’). È stato dunque opportunamente osservato che anche sotto questo riguardo si mette in evidenza «l’unità della civiltà greca in epoca ellenistica fino agli estremi confini; le iscrizioni greche dell’Arachosia non sono toccate da alcun fenomeno di degenerazione, di isolamento, di ‘barbarizzazione’»[18]. Queste osservazioni sono state ulteriormente avvalorate dalla sorprendente scoperta in Battriana, ad Aï Khanoum (Afghanistan), nel 1966, della celebre iscrizione con le massime delfiche trascritte dal filosofo peripatetico Clearco di Soli per il temenos del fondatore locale Kineas e dalla recente scoperta di due nuove iscrizioni greche provenienti da Kandahar in Arachosia / Afgha­nistan (epigramma funerario acrostico del mercante greco-indiano So­phytos) e dalla Battriana / Tagikistan (dedica metrica di Heliodotos ad Hestia in favore del re greco-battriano Euthydemos I, 206-195 a.C., e del figlio Demetrio)[19].

La patina e le connotazioni comunemente ellenistiche delle iscri­zioni greche di Ašoka, a uso dei destinatari greci, non impediscono di cogliere le profonde diversità etico-dottrinali e la dominante conno­tazione buddhista dell’insieme dei documenti. Comunque, le caratteri­stiche del buon re desumibili dagli editti di Ašoka riconducono in qualche modo al principio generale della philanthropia dei re elleni­stici. Ma, a parte questa generica e prevedibile coincidenza, la Lettera di Aristea, i Milindapañha e le iscrizioni di Ašoka appartengono a mondi e culture profondamente diversi e distanti, anche se nel caso di Ašoka e Menandro/Milinda si tratta di mondi e culture contigui e reciproca­mente influenzatisi. La Lettera di Aristea rimane un testo esemplare della regalità ellenistica; i Milindapañha e le iscrizioni di Ašoka espri­mono rispettivamente l’ideale buddhista della rinuncia al potere nel mondo e il pacifismo missionario della regalità buddhista.

~

Le due iscrizioni greche rupestri di Ašoka provenienti da Kandahar (Afghanistan). Kabul, Museo Nazionale[20].


Iscrizione rupestre di Ašoka in greco e aramaico.

I. – Parte greca del proclama bilingue greco-aramaico. (Traduzione B.V.)

«Compiutisi dieci anni, il re Piodasses ha mostrato agli uomini la pietà. E da allora ha reso gli uomini più pii e ogni cosa prospera su tutta la terra. E si astiene il re dagli esseri animati, e gli altri uomini e tutti i cacciatori o pescatori del re hanno cessato di cacciare. E quelli incapaci di domi­narsi hanno desistito dalla incapacità di dominarsi secondo la (loro) possi­bilità. E (sono divenuti) obbedienti al padre e alla madre e agli anziani, contrariamente a prima. Osservando queste norme, vivranno in futuro in modo migliore e più vantaggioso in tutto.»

II. – Redazione greca (incompleta) dei grandi editti rupestri XII e XIII (256/5 a.C.). (Traduzione B.V.)

(Linee 1-11: grande editto rupestre XII.)

«… pietà e dominio di sé in tutte le scuole filosofiche; domina in sommo grado sé stesso chi domini la (sua) lingua. Non elogino sé stessi (i.e., qui e dopo: la propria scuola) e non denigrino gli altri (i.e., qui e dopo: le altre scuole) per nulla: perché ciò è vano, mentre (è) preferibile provarsi in ogni modo a elogiare gli altri e a non denigrarli. Quelli che si comportano così esaltano sé stessi e guadagnano a sé gli altri; quelli che non osservano ciò sono piuttosto privi di reputazione e sono invisi agli altri.

Coloro i quali elogiano sé stessi e denigrano gli altri si comportano in maniera eccessivamente ambiziosa: volendo rifulgere in confronto agli altri, molto di più danneggiano sé stessi. Conviene avere ammira­zione reciprocamente e ammettere le dottrine gli uni degli altri. Quelli che si comportano così saranno ben più sapienti, scambiandosi reci­procamente quanto ciascuno di essi sa. Non bisogna esitare a dire que­ste cose anche a coloro che le praticano, perché persistano sempre nella pietà.»

(Linee 11-22: grande editto rupestre XIII.)

«Nell’ottavo anno di regno Piodasse ha conquistato il (paese di) Ka­linga. Centocinquantamila uomini sono stati catturati e da lì sono stati deportati, altri centomila sono stati sterminati e quasi altrettanti sono morti. Da quel tempo pietà e compassione lo hanno preso, ed è ango­sciato. Nello stesso modo in cui ha ordinato di astenersi dagli esseri animati, ha profuso (ogni) zelo e sforzo per la pietà.

E questo il re ha preso con ancora maggiore pena: quanti brahmani o sramani o altri praticanti la pietà colà (i.e.: nel paese di Kalinga) avevano dimora – gli abitanti del luogo dovevano tenere da conto gli interessi del re: rispettare e onorare il maestro, il padre e la madre, avere cari e non ingannare amici e compagni, trattare schiavi e servi nel modo più mite possibile – se qualcuno di questi che là erano impe­gnati in queste cose è morto o è stato deportato, quand’anche gli altri considerino ciò nel corso (delle cose), il re invece fortemente si angu­stia per costoro. E come presso gli altri popoli vi sono …»


Le rovine del Museo Nazionale di Kabul nel 2002.
Foto inviatami da un funzionario dell’allora “Delegazione d’Affari Italiana” a Kabul.

[Riduzione da: B. Virgilio, Studi sull’Asia Minore e sulla regalità ellenistica, Pisa-Roma 2014]

Note

[1] O. Murray, Perì Basileias: Studies in the Justification of Monarchic Power in the Helle­nistic Period, Diss. D. Phil., Oxford 1970; Id., Modello biografico e modello di regalità, in «I Greci. Storia, Cultura, Arte, Società» 2.III, Torino 1998, pp. 249-269.

[2] E. Gabba, Scienza e potere nel mondo ellenistico, in «La Scienza Ellenistica», a cura di G. Giannantoni – M. Vegetti, Napoli 1984, pp. 13-37; Id., Pubblica opinione e intellettuali nel mondo antico, «Rivista Storica Italiana» 110 (1998), pp. 5-20.

[3] Eliano, Varia Historia, II, 20.

[4] Ateneo, Deipnosophistai, XIV, 67, 652.f. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Bari 1966, II.1, pp. 345-346.

[5] Filone Alessandrino, Vita di Mosè, I, 148-162.

[6] P. M. Fraser, Ptolemaic Alexandria, Oxford 1972p. 485 e p. 702.

[7] W. W. Tarn, The Greeks in Bactria and India2, Cambridge 1951, pp. 414-436.

[8] The Questions of King Milinda, translated from the Pali by T. W. Rhys Davids, I-II (libri I-VII), London 1890-1894 (ristampa New Delhi 1977); Milindapañha. Le Domande del re Milinda, (libri I-III), a cura di M. A. Falà, Roma 1982; Milindapañha. Le Domande di Milinda, (libri II-III), a cura di F. Sferra, in La rivelazione del Buddha I. Testi antichi, a cura di R. Gnoli, Milano 2001, pp. 103-200.

[9] Cf. A. K. Narain, The Greeks of Bactria and India, «Cambridge Ancient History2» VIII (1989), pp. 406-412; O. Bopearachchi, Monnaies gréco-bactriennes et indo-grecques. Catalogue raisonné, Paris 1991, pp. 66-70, 76-88, 239-247, pll. 26-33.

[10] R. Thapar, Ašoka and the Decline of the Mauryas2, Oxford-New Delhi 1997.

[11] J. Gonda, Tarn’s Hypothesis on the Origin of the Milindapañha, «Mnemosyne» 4.2 (1949), pp. 44-62 = Selected Studies IV, Leiden 1975, pp. 469-514.

[12] Plutarco, Precetti politici,821.d-e. O. Mørkholm, Early Hellenistic Coinage from the Accession of Alexander to the Peace of Apamea (336-186 b.C.), Cambridge 1991, 1pp. 180-181, n° 641.

[13] J. S. Strong, The Legend of King Ašoka. A Study and Translation of the Ašokāvadāna, Princeton 1989.

[14] E. Ultzsch, Inscriptions of Ašoka («Corpus Inscriptionum Indicarum» I), Oxford 1925; B. Barua – B. N. Chaudhury, Inscriptions of Ašoka2, Calcutta 1990. In italiano: Gli editti di Ašoka2, a cura di G. Pugliese Carratelli, Firenze 2003.

[15] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico II.1, cit., pp. 330-332s

[16] D. Schlumberger – L. Robert – A. Dupont-Sommer – E. Benveniste, Une bilingue gréco-araméenne d’Asoka, «Journal Asiatique» 246 (1958), pp. 1-48.

[17] D. Schlumberger – L. Robert, Une nouvelle inscription grecque d’Açoka, «Comptes-rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres» 1964, pp. 126-140; E. Benve­niste, Édits d’Asoka en traduction grecque, «Journal Asiatique» 252 (1964), pp. 137-157.

[18] D. Schlumberger – L. Robert, Une nouvelle inscription grecque d’Açoka, cit. p. 136.

[19] Aï Khanoum: L. Robert, De Delphes à l’Oxus. Inscriptions grecques nouvelles de la Bactriane, «Comptes-rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres» 1968, pp. 421-457. Kandahar e Battriana: P. Bernard – G.-J. Pinault – G. Rougemont, Deux nou­velles inscriptions grecques de l’Asie centrale, «Journal des Savants» 2004, pp. 227-356.

[20] Le varie distruzioni e saccheggi del Museo durante le guerre afgane rendono incerta la sorte delle due iscrizioni.

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