Le aporie natura-ragione
Rinvenire l’idea della Rivoluzione in Leopardi significa chiamare in causa alcuni saldi princìpi della sua filosofia.
Leopardi postula l’Essere al di fuori del quale non c’è nulla, ma in cui è la ragione ultima di tutto quel che è e accade, ciò che si dice l’Assoluto in contrapposizione al relativo. Ma accanto all’Assoluto c’è l’altro termine, la coscienza umana, e i valori a essa immanenti che si attuano in quel principio dell’universo in cui trova il suo proprio fondamento tutto ciò che ha valore. E’ chiaro che questa idea di filosofia presuppone un eccesso di incivilimento che non è mai separato da un eccesso relativo dei lumi.
Sotto la data 17 gennaio 1821 leggiamo in Zib. 522:
“(…) E l’azione presente non può essere se non effimera, e finirà nell’inazione come per sua natura è sempre finito ogni impulso, ogni cangiamento operato nelle nazioni da principio e sorgente filosofica, cioè da principio di ragione e non di natura inerente sostanzialmente e primordialmente all’uomo (…)“.
E prima ancora in Zib. 160 troviamo registrato questo pensiero:
“La rivoluzione Francese posto che fosse preparata dalla filosofia, non fu eseguita da lei, perché la filosofia specialemente moderna, non è capace per se medesima di operar nulla.“
Gli impulsi che si fondano nella ragione e nel sapere e nelle credenze o convinzioni non naturali o contrarie alla natura sono effimeri e destinati all’inazione, al contrario di quelli della vita antica e della vita fanciullesca e di quella selvaggia, quando ancora la natura non è stata alterata dall’arte e dal pensiero. La pura ragione porta alla distruzione delle illusioni e all’egoismo che estingue lo spirito nazionale e la virtù. Perciò quando anche la filosofia sia buona ad eseguire essa stessa una rivoluzione, non potrebbe mantenerla. E qui scopriamo una prima aporia di pensiero che svela l’aspetti drammatico con cui Leopardi ripensa alla Rivoluzione di Francia.
Ingiustamente il secolo che precede la Rivoluzione, quello di Luigi XIV, è considerato civilissimo. In realtà esso è stato l’epoca della corruzione barbarica delle parti più civili d’Europa, l’epoca dell’assolutismo, e cioè del conflitto tra diritto di natura quale libertà di usare il proprio potere e legge di natura quale prodotto della ragione umana che difende l’istinto fondamentale di conservazione, cioè il solo fatto etico assoluto. Ogni uomo aliena il proprio diritto su tutte le cose in favore di una comune autorità, il sovrano, che così dispone di un incondizionato servizio della propria volontà. Se si pensa che allo sviluppo della monarchia assoluta ha grandemente influito ora la lotta tra le classi, allorché il re è stato arbitro tra di esse, ora la guerra contro lo straniero, perché, con il suo prolungarsi, ha permesso al sovrano di mantenere un esercito permanente e di riscuotere alcune imposte senza più occuparsi del consenso dei sudditi, nella Francia di Luigi XIV l’assolutismo è stato la contropartita della debolezza dei mezzi di azione governativa.
Marc’Aurelio e Federico II di Prussia
A ragione Leopardi sotto la data 23 maggio 1821 in Zib. 1078 può scrivere:
“(…) Risorgimento incominciato in Europa dalla rivoluzione francese, risorgimento debole, imperfettissimo, perché è derivato non dalla natura, ma dalla ragione, anzi dalla filosofia, ch’è debolissimo, tristo, falso, non durevole principio di civiltà. Ma pure è una specie di risorgimento; ed osservate che malgrado la insufficienza de’ mezzi per l’una parte, e per l’altra la contrarietà che essi hanno con la natura, tuttavia la rivoluzione francese (com’è stato spesso notato) ed il tempo presente hanno ravvicinato gli uomini alla natura, sola fonte di civiltà, hanno messo in moto le passioni grandi e forti, hanno restituito alle nazioni già morte, non dico una vita, ma un certo palpito, una certa lontana apparenza vitale. (…)“.
Come il fondamento compiuto dalla legge naturale non sta nel fine dell’uomo, ma nelle sue origini, per cui esso fondamento deve essere dedotto da un fatto naturale, e in particolare dalla più potente di tutte le passioni che è la paura di morire, e meglio ancora esprime la più potente e sostanziale di tutte le aspirazioni naturali, cioè il desiderio primordiale, l’istinto dell’autoconservazione, così l’aporia ragione-natura si completa e si rinsalda con alcuni pertinenti riferimenti storici in cui si rinvengono al tempo stesso l’esaltazione e la noncuranza delle forme di umana eccellenza.
Marc’Aurelio e Federico II di Prussia sono stati due principi filosofi, della filosofia antica quegli e della filosofia moderna questi: Marc’Aurelio in un secolo inclinante alla barbarie, è stato il padre dei suoi popoli ed esempio di virtù morali di ogni genere; Federico II di Prussia, invece, in un secolo sommamente civile, è stato il maggior despota della storia, il più freddo egoista verso i suoi popoli e il più indifferente al loro bene al quale ha anteposto il bene proprio.
Sono due prospettive teoriche che utilizziamo, per recuperare un’aporia più ampia e problematica del pensiero leopardiano.
I sommi filosofi francesi, i precursori e gli attori della rivoluzione sono incorsi, secondo Leopardi, nell’errore di non capire che ragione e vita sono due aspetti incompatibili della realtà, in quanto fondamento, causa e sorgente della vita e della felicità di un popolo non può essere l’uso intero e universale della ragione e della filosofia, bensì la natura, anche se questa, insieme con la società, cela la più drammatica delle aporie, e cioè che nella società e nella natura è proprio la disuguaglianza a essere un fatto reale.
“(…) Gli uomini anche i più civili e filosofi, così facendo (come quasi tutti, anche i sommi, fanno), somministrano nello stesso eccesso della lor civiltà e spiritualizzazione, una forte conferma di questa nostra proposizione che non vi sia cosa più contraria alla natura che la spiritualizzazione dell’uomo e di qualsivoglia cosa, e che tutto insomma p. natura è materiale, e che la materia sempre vince, e che quindi essi così civili e spiritualizzati sono corrottissimi, perché nello stesso loro ragionamento con cui vogliono difendere questo loro stato, e che loro è inspirato da questo, dànno la preferenza alla materia e non vogliono ragionare che materialmente“. (Zib. 3935).
E’ un pensiero che testimonia in Leopardi la disperazione prodotta nel suo spirito dal sensismo settecentesco, cioè da una filosofia che è stata organica altrove in Europa, a cui però in Italia non hanno corrisposto forme e lotte materiali e politiche, ma una filosofia che ha tuttavia contribuito a sviluppare in Leopardi lo spirito critico e ad attenuare sempre più in lui la fiducia nell’idea di progresso, tanto che egli della storia non vede ciò che si acquista, ma unicamente ciò che si perde, per esempio la fine della classicità la quale all’eccellenza umana sostituisce la semplice virtù politica.
Un errore, difatti, secondo Leopardi, a proposito del piano di educazione durante la rivoluzione francese, è stata la proposta presentata da Condorcet il 21 e il 22 aprile 1792 all’Assemblea nazionale, di abolizione e proscrizione della religione naturale, come è ragionevole e contraria alla filosofia. Riscontriamo qui un altro aspetto aporetico del pensiero leopardiano, sempre in ordine all’evento rivoluzionario di Francia.
La proposta di Condorcet difatti tocca e infrange la sfera della coscienza umana la quale sente che Dio, concepito come infinitamente giusto e buono, non può che aver dato all’uomo se non la stessa legge fin dall’atto della creazione, e quindi l’unica vera religione non può essere che quella naturale. Inoltre la credenza in Dio si configura come determinata dalla ragione, nella misura in cui questa è patrimonio comune a tutti gli uomini, sì che essi conoscono naturaliter l’esistenza della divinità.
In questa argomentazione c’è il fulcro di quello che i Greci definivano aporìan aporeìn, cioè essere nel dubbio, non però nel senso che nelle aporie della religione bisogna vedere un fallimento della religione medesima o una sua tragica insufficienza, bensì al contrario la stessa vitalità e intimità più profonde, in che consiste l’originalità del complesso pensiero leopardiano. Leopardi mentre sostiene che la rivoluzione francese ha spinto indietro l’incivilimento, ammette nello stesso tempo che essa ha contemporaneamente aperto la storia al merito, all’onore e alla virtù e ha avvicinato la Francia alla natura.
“(…) E l’impero francese (nato, vissuto e morto in vent’anni, il che serve di prova di fatto a ciò che dico sulla fine del p. preced.) merita anch’esso un posto fra questo genere d’imperi. Perocché sebbene la nazion francese è la più civile del mondo, pure ella non conseguì questo impero, se non in forza di una rivoluzione, che mettendo sul campo ogni sorta di passioni, è ravvivando ogni sorta di illusioni, ravvicinò la Francia alla natura, spinse indietro l’incivilimento (del che si lagnano infatti i bravi filosofi monarchici), ritornò la Francia allo stato di nazione e di patria (che aveva perduto sotto i re), rese, benché momentaneamente più severi i loro dissolutissimi costumi, aprì la strada al merito, sviluppò il desiderio, l’onore, la forza della virtù e dei sentimenti naturali; accese gli odi e ogni sorta di passioni vive, e insomma se non ricondusse la mezzana civiltà degli antichi, certo fece poco meno (quanto comportavano i tempi), e non ad altro si debbono attribuire quelle azioni dette barbare di cui fu sì feconda allara la Francia. Nata dalla corruttela, la rivoluzione la stagnò per un momento, siccome fa la barbarie nata dall’eccessiva civiltà, che per vie stortissime, pure riconduce gli uomini più da presso alla natura (6 Gen. dì dell’Epifania, 1822.)”. (Zib. 2334-2335).
In Leopardi l’aporia ragione-natura è possibile solo sulla base di una differenza essenziale, ma con un ruolo molto specifico e originale, e cioè che i due termini di essa si coappartengano in quanto dalla loro coappartenenza si svolge la loro determinazione storica.
Una forma di aporia, del resto, non è presente nel concetto di democrazia? Così difatti ha scritto Massimo Boffa a proposito dell’eredità della rivoluzione francese e del rinnovamento della cultura politica della sinistra italiana: “La democrazia è un “pegno” di uguaglianza: vive propriamente di questa tensione, fra un’uguaglianza che non potrà mai essere integralmente realizzata fra gli uomini concreti e un’intenzione di uguaglianza, una idealità, una aspirazione ad essere sempre più uguali, che non bisogna mai abbandonare, poiché è essa che, insieme alla libertà, dà il suo senso e la sua nobiltà all’azione per migliorare la società in cui viviamo”[1].
Questo pensiero ci pare riproduca secondo uno spirito di modernità la posizione storica di Leopardi, la quale, pur esprimendo un disagio storico-esistenziale che si rivela in un senso di inquietudine che pervade tutta la sua opera, fornisce con la sua dialettica permanente ragione-natura, un punto di vista per l’arricchimento della conoscenza, in quanto, se non altro, ci insegna a considerare la contraddizione come l’orizzonte di ogni mondo storico, e la storia medesima come una struttura problematica.
[La rivoluzione francese e le aporie leopardiane, in “Corriere”, anno IV n. 3, Marzo 1989, p. 3]