Può accadere soltanto a Lisbona che si prenda un elevador da dentro un ambiente che fortemente somiglia all’androne di un palazzo e che si salga lentamente tra due ali di case: o elevador da Bica offre una tale opportunità, perché Lisbona dà di sé la rappresentazione di una città che rovescia l’interno verso l’esterno, come a voler creare un percorso intimo e domestico anche quando si è per strada: è facile dai miradoures scorgere i terrazzi e i cortiletti affollati di cose; migliaia di azulejos ricoprono le facciate dei palazzi, così che elementi decorativi da interno (le piastrelle istoriate o dipinte) si proiettano all’esterno, verso lo spazio pubblico; nei vicoli di Alfama, Chiado, Bica, del Bairro Alto porte e finestre delle abitazioni sembrano serbare un rapporto privilegiato con la strada e con l’eventuale passeggere.
Sontuosi gli androni dei palazzi coloniali all’Avana, superbi per colori e decorazioni e architetture. Ma nel coesistere di splendore e di zone dall’intonaco scrostato, di chiazze d’umidità e stucchi di finissima fattura si condensano anche lo splendore e i fallimenti della rivoluzione: palazzi edificati sullo sfruttamento delle classi popolari, al popolo restituiti dalla rivoluzione (non è raro leggere in questi androni parole d’ordine e proclami politici), ma non sempre quella medesima rivoluzione ha saputo o potuto garantire condizioni materiali capaci di salvare quegli stessi palazzi dal deterioramento. È a questa svolta del “breve saggio sugli androni” che va sottolineato come gli androni rendano visibile anche la collocazione urbanistica e sociale dell’edificio: ci sono androni semplici e spartani, luoghi d’accesso alle cosiddette case popolari, anch’essi differenziati a seconda delle diverse situazioni (lindi e dignitosi alcuni, fatiscenti, ricoperti di scritte più o meno oscene altri, i cui elementi – caselle postali, quadri dei citofoni, trombe delle scale – sono oggetto di guasti inferti con una violenza che spesso esprime rivolta e protesta, o, anche, impotente rabbia); altri androni, rivestiti di marmi e legni, menano ad appartamenti cosiddetti “di pregio” o agli studi dei professionisti, marcando un’ulteriore distanza sociale ed economica rispetto ai condomini “popolari” e “periferici”.
L’androne come soglia: varcare una soglia (per entrare o per uscire) è atto che interrompe una continuità per generare quella necessaria discontinuità che è ritorno dell’andare e del respirare.
L’androne come spazio d’accesso: si lascia la strada, si accede a uno spazio da essa separato, si viene guidati verso un interno – l’interno e l’esterno sono ritmi della città, ma talvolta tendono a contrapporsi, a sancire un’esclusione, un’inospitale barriera: ché il portone chiuso, il portiere sollecito a controllare l’accesso ed eventualmente a sbarrare il passo esprimono un rifiuto e una paura (talvolta legittima, bisogna ammetterlo, ma non sempre).
L’androne come luogo parentetico: né strada, né casa, trait d’union, tratto però essenziale del volto più generale di un’abitazione.
L’androne come il rovescio della facciata, il suo volto “intimo”.
Androni dei palazzi napoletani: talvolta sfigurati da auto o motorini in sosta, talaltra emozionanti per bellezza e per nome, soglie della contraddizione radicale se la miseria più cruda, esistenze di camorristi, vite che (purtroppo e questo accusa un intero sistema sociale e politico che sta fallendo) mai sapranno né potranno emanciparsi lambiscono androni di dimore patrizie o di palazzi dove ha abitato il pensiero più alto – varcare, con indicibile emozione, la soglia di Palazzo Serra di Cassano e ancora avvertire l’energica e ospitale presenza dell’Avvocato Gerardo Marotta, salire il sontuoso scalone dell’Istituto Italiano per gli Studi filosofici, pensare questa soglia, riconoscersi in questa soglia.
Androne di Palazzo Cellammare: a volerle ascoltare, a fortemente evocarle, arrivano ancora fin qui le note del pianoforte suonato da Renato Caccioppoli per gli amici accolti nel salone di casa sua.
Androni dentro i quali botteghe artigiane (d’ombrellai, camiciai, sarti) continuano una nobile, antica tradizione.
Androni che albergano l’edicola dedicata a un Santo o a una Santa, continuazione di un pantheon politeista per una religione monoteista.
Ed ecco che sorge improvvisa (o improvvida?) alla mente l’idea che androne di tipo nuovissimo e altrettanto stimolante possa essere l’accesso alla Stazione della linea metropolitana in Via Toledo: androne non verso una dimora, ma verso il luogo sotterraneo dello spostarsi e dell’andare, sulla cui lunga parete William Kentridge ha inventato uno stratificato mosaico a celebrare la città stratificata e contraddittoria. Di corsa ma molto meglio, se possibile, con il passo (ch’è uno stato di grazia, di gratuita e libera felicità) del flâneur si discendano i pochi gradini e si percorrano con lo sguardo agevolato dal giusto passo le immagini, il tempo cristallizzato eppure in moto sulla parete, la danza di personaggi e segni e luoghi in quest’androne nuovo e antico, nuovissima soglia per pensare ancora altre soglie.
[“La Dimora del Tempo sospeso”, 6 gennaio 2019]