«Lu senzu de la vita»: la poesia ‘filosofica’ in dialetto di Nicola G. De Donno (Parte seconda)

In Testamentu dunque, datata maggio 1996, c’è una riflessione sull’io, («sonnu de sonnu a llu nunzenzu meu»), che da quando si nasce senza saperlo e si acquista coscienza di ‘esserci’, ci tiene come incarcerati («jeu piernu e ccirchiu ca / màncane cu mme llibbru libbertà») e ci tiene ancorati al presente, al ‘qui’ e ‘ora’:

Stu moi, stu cquai, stu jeu, quanti suntu anni,

Nicola, ca scandaji, ca te nfanni

an cerca de pertusi

perti a sta libbertà de carciratu (15)[1]

«Questo adesso, questo qui, questo io, quanti anni sono, / Nicola, che scandagli, che ti affanni / in cerca di pertugi / aperti in questa libertà di carcerato»),

dove quei «pertusi» («i pertugi») richiamano, anche qui,  il «varco» o altre immagini montaliane consimili (l’«anello che non tiene», la «maglia rotta della rete»), cioè il tentativo di trovare un’impossibile via di salvezza all’insensatezza e all’insignificanza dell’esistenza umana. Solo che, mentre in Montale, è la vita dell’uomo, predeterminata com’è per oscure ragioni, a costituire una prigione invalicabile (la «muraglia / che ha in cima cozzi aguzzi di bottiglia» di Meriggiare pallido e assorto), per De Donno il carcere è costituito dall’io. E qui, come s’è detto, c’è un riferimento alla filosofia dell’Atto puro gentiliano, a cui De Donno, nel poemetto successivo, dice esplicitamente di rifarsi in Testamentu, secondo la quale il fondamento della realtà è costituito dal pensiero pensante soggettivo. Per Gentile, infatti, l’oggetto del pensiero, sia il mondo esterno o lo stesso Dio, non ha altra realtà al di fuori del pensiero in atto, che lo pensa e, pensandolo, lo pone. Questo ci impedisce di conoscere la vera realtà, la dimensione più autentica dell’esistenza umana che ci viene impedita anche dall’arrivo inevitabile della morte.

Testamentu, quindi, è una sorta di preludio ai tre poemetti del libro, che si possono considerare, per restare nella metafora musicale, tre ampi movimenti di un’unica sinfonia. Il primo, grandioso movimento è Èssere è lla Vita, composto nel marzo del 2001, di ben 207 versi, che a sua volta si può suddividere in quattro parti, di circa cinquanta versi ciascuna. Nella prima parte, che arriva fino al verso 51, dopo aver riassunto il concetto di Testamentu, De Donno rivendica la scelta del dialetto per la trattazione di argomenti filosofici, contro il parere di un illustre amico «di gran cervello», probabilmente il critico Oreste Macrì, il quale era piuttosto scettico nei confronti di questa possibilità. Si tratta di una vera e propria dichiarazione di poetica come tante altre che ricorrono nelle raccolte di De Donno e che dimostrano la sua consapevolezza nelle scelte linguistiche e tematiche:

Scriere an dialettu la filosufia

m’era rispettu pe sta lingua noscia,

m’era aprire a cce artezza è bbona rria.

E mm’era puru sciòcula llu mmoscia,

lu dialettu, a nn’amicu de cuzzettu,

ma ca necava am morte lu cuncettu

meu su lle scenzie e lle filosufie,

capaci cu rraggiònene an dialettu.

Cusì, lu Testamentu foe pe mmie

ancu, cretu, nu ndore de tispiettu. (17)

(«Scrivere la filosofia in dialetto / mi era rispetto per questa lingua nostra, / mi era aprire a che altezza è capace di arrivare. / E mi era pure giochetto a mostralo, / il dialetto, a un amico di gran cervello, / ma che negava a morte il concetto / mio sulle scienze e le filosofie / capaci di ragionare in dialetto. / Così, il Testamento fu per me / anche, credo, un odore di dispetto»).

Nella seconda parte, che giunge al verso 100, si pone la domanda sull’Essere, e giunge alla conclusione che l’Essere è la Vita stessa, che comprende uomini, animali, piante, pietre, i quali tutti nascono e muoiono:

O nvece l’Èssere ète la Vita,

sta fiumara de l’èsseri nfinita,

sta nfinità de l’èsseri, a catine:

peṭre, chiante, animali, e ssusu e nfine

l’òmmini ca murimu, e ugnunu è gnenti,

ma le vite e lle morti su’ pparenti? (19)

(«O invece l’Essere è la Vita, / questa infinita fiumara degli esseri, / questa infinità di esseri, a catene: / pietre, piante, animali, e al di sopra e infine / gli uomini che moriamo, e ognuno è niente, / ma le vite e le morti sono parenti?»).

Così la Vita di ogni vita naturale, singola, individuale (di uomini, animali, piante, pietre) compone l’Essere che comprende quindi anche la morte:

…Tale e cquale

 la Vita de ogni vvita naturale

(de l’òmmini, la chianta, l’animale,

la peṭra stessa), ntelliggente o none,

o menza e mmenza, st’Èssere cumpone

a ffiumara de morti e nnascimenti

ca stu munnu lu suca de lu gnenti. (21)

(«…Tale e quale / la Vita di ogni vita naturale / (degli uomini, la pianta, l’animale, / la pietra stessa), intelligente o no, / o mezza e mezza, compone l’Essere / in fiumara di morti e nascite / che questo mondo lo succhia dal niente»).

Nella terza parte, dalla riflessione sull’Essere si passa a quella sulla storia, essendo il poeta, come tutti, inserito nella storia. Questo gli permette di volgere lo sguardo alla società italiana attuale  e qui ritornano i consueti motivi e toni di De Donno, presenti nei libri precedenti: la denuncia del malaffare nella sanità, nella scuola, nella politica, l’indignazione per l’ingiustizia e le disuguaglianze sociali, la satira verso i potenti.

Nella quarta e ultima parte di Èssere è lla Vita, De Donno, dopo aver ritrattato le idee sul Niente espresse nel Testamentu, espone la sua nuova concezione dell’Essere che è la  «Vita vivente universale», della quale non si riesce a sapere se è nata, se morirà né a comprendere il senso, ma che c’è e che ci tocca vivere con la sua gioia e i suoi dolori. Questo pensiero sembra portare all’ottuagenario poeta, afflitto da  problemi di salute e alle prese con medici, ospedali e cardiogrammi, una sorta di pacificazione interiore. E qui la poesia di De Donno raggiunge vette davvero ragguardevoli. Straordinaria, ad esempio, uno dei vertici della sua poesia ‒ mi sembra ‒ è la chiusura di questo componimento. Qui il tono basso, scherzoso, autoironico con cui egli descrive le sue tranquille abitudini di vita, tipiche di un vecchio pensionato, che passa le sue giornate tra una lettura, la composizione di qualche poesia, un sonnellino in poltrona e un giretto in paese si fonde volutamente con la vertiginosa riflessione sulle innumerevoli vite di uomini inghiottite, fagocitate da quel buco nero che è la stessa «Vita» che sfocia, quasi implode, verso il niente:

Moi la matina m’àusu de lu lettu

su ll’arbeggiare, quannu le puisìe

me su’ pprupizzie, e ffinu a mmenzitìe

ne scriu e nne leggu, e mme le godu am piettu.

Poi, mangiatu, me sḍraju a lla pulṭrona,

penzatoju a ḍḍu mente me funziona

tranquilla, senza sṭrèpiti, a lla bbona.

Me fazzu nu ggirettu lentu lentu

quannu nu cchiòe, e nnu nc’è mmutu jentu,

e rriva ca me curcu, e ppenzu e ppenzu

èsseri, vite e mmorti, fenca senzu

me llea lu sonnu e mpannu, e mme cuttentu.

[…]

E ssacciu puru ca nc’è a ll’osci tanta

e ttanta e ttanta, e scunfinata a rretu

gnentità de millanta su mmillanta

èsseri, vite, numi e ssipurcretu.

E ppuru jeu, lu sacciu, sparire àggiu

a nnu gnenti de vita, sṭrapassatu

senza ricordu e ssenza nuḍḍu raggiu

de la luce de Vita ca era statu. (27)

(«Adesso la mattina mi alzo dal letto / con l’albeggiare, quando le poesie / mi sono propizie, e fino a mezzodì / ne scrivo e leggo, e me le godo  in petto. / Poi, dopo pranzo, mi sdraio nella poltrona, / pensatorio dove la mente mi funziona / tranquilla, senza strepiti, alla buona. / Mi faccio un giretto lento lento / quando non piove, e non c’è molto vento, / e arriva che mi corico, e penso e penso / esseri, vite e morti, finché senso mi leva il sonno e mi addormento, e mi accontento. // […]  // E so pure che c’è nell’oggi tanta / e tanta e tanta, e dietro sconfinata / nientità di millanta su millanta / esseri, vite, nomi e sepolcreto. // E pure io, lo so, dovrò sparire / in un niente di vita, oltrepassato / senza ricordo e senza nessun raggio / della luce di Vita che ero stato»).

Nel secondo poemetto, Ci pecca e ppoi se mmenne, sarvu seste, più breve, diviso in sette strofe disuguali, per complessivi 44 endecasillabi, composto nel luglio del 2001, qualche mese quindi dopo l’altro, De Donno, dopo aver affrontato il tema dell’Essere, ritorna qui su quello dell’io, chiedendosi chi egli sia («”Ci” suntu jeu e “cce” suntu ddimmannatu / mai nu mme l’ia», 29; «”Chi” sono io e “che” sono domandato non me l’ero mai»). E si risponde in maniera analoga: le esistenze dei singoli non sono che innumerevoli vite tra le innumerevoli altre vite compattate dall’Essere che è la Vita e dalla «scura» («oscura») Morte che fa parte dell’Essere:

Vita vissuta vita nfinitèsima

tra nfinitèsime àuṭre e ṭṭranzitoria.

Cinca sape ca isiste, de ogni storia

funte se sente e ccenṭru. Li ncantèsima

de profunnu, e nnu ssannu, e lli mmedèsima

l’Essere ca è lla Vita, cu lla scura

Morte ca vite nuvelle nfutura,

e nzieme le cumpatta, a nna natura

de nn’universu, ca la mente umana

immenzu e gnenzi mai rria lli ṭrapana. (29)

(«Vita vissuta, vita infinitesima / tra infinitesime altre, e transitoria. / Chiunque sa di esistere, di ogni storia / si sente fonte e centro. Fa loro incantesimo / dal profondo, e non sanno, e li immedesima / l’Essere che è la Vita, con la scura / Morte che infutura vite novelle, / e le compatta insieme, in una natura / di un universo, di cui la mente umana / non trapanerà mai il niente e l’immenso»).

Ma la mente umana non potrà mai conoscere il senso del niente costituito da questa vicenda eternale, infinita, né potrà mai sapere la ragione del bene e del male che sono, anch’essi, come il destino e la libertà, collegati dall’Essere, «Vvita / de vite, ca la Vita li ncantèsima», 30 («Vita / di vite, cui la Vita fa incantesimo»).

Nel terzo e ultimo poemetto, Cu lle vite, la Vita, del novembre 2011, diviso in due parti preceduto da una protasi di tre endecasillabi per complessivi 95 versi, De Donno riflette invece sulla storia, sul tempo e sulle memorie, coerentemente con le posizioni ideologico-speculative espresse nei due testi precedenti. Nella prima parte, Li tiempi e lle vite, sostiene che non esiste il passato e il futuro, esiste solo il presente «spazio dell’anima»:

Isiste sulamente lu ‘prisente’,

cciuvè lu moi e llu cquai d’ogne isistenzia

de vita (31);

(«Esiste solamente il “presente”, / cioè l’adesso e il qui d’ogni esistenza / di vita»),

confessando di essere vicino in questo alla concezione di Sant’Agostino, del quale però rifiuta le soluzioni trascendentali, come d’altra parte, a maggior ragione, rifiuta la teorizzazione aristotelico-tomistica del potere religioso e politico.

Nella seconda parte, Le storie e lle memorie, continua il discorso sul presente, sul qui e ora di ogni vita, viaggiante verso la Morte che ne rinnova continuamente altre. Il nostro ‘io’ genera memorie che chiamiamo storie, ma anche queste sono effimere, perché tutto è fagocitato dalla Vita universale, che annienta le vite dei singoli individui, come quelle degli animali, come le memorie e le storie, alla maniera del mare che annulla le onde, non curandosi tantomeno delle disuguaglianze sociali che anzi si allargano sempre più. E il senso della Vita dunque, per De Donno? A volte sembrano emergere delle crepe, dei dubbi, nelle sue convinzioni, nelle sue certezze («Forsi cusì le vite cu lla Vita. / O forsi no. Cisà! La Vita è scura», 34; «Forse così le vite con la Vita. / O forse no. Chissà! La Vita è oscura»). Ma il finale è inequivocabile:

E lla Vita? La Vita nu nn’àe senzu

dopu àe ccise le vite. E bbasta. E cchiute.

a vita ca su’ jeu, lu moi e lu cquai

ca mme li sentu a llu livellu chiaru,

me terrurizza a llume de lu gnenti.

Ulìa mme ngannu. Ma la Vita è scura. (35)

(«E la Vita? La Vita non ha senso / dopo avere ucciso le vite. E basta. E chiude. /  La vita che sono io, l’adesso e il qui / che me li sento al livello chiaro, / mi terrorizza a lume del niente. / Vorrei ingannarmi. Ma la Vita è oscura»).

La vita, insomma, per De Donno, rimane davvero insensata, «oscura», incomprensibile alla mente umana, e nel suo animo resta, alla fine, un senso di angoscia, di terrore quasi, nel pensare a questo niente che è la Vita che uccide le singole vite.

[In A. L. Giannone, Sentieri nascosti. Studi sulla Letteratura italiana dell’Otto-Novecento, Lecce, Milella, 2016]


[1] Le nostre citazioni sono tratte da N. G. De Donno,  Filosofannu?, cit. Ai versi segue il numero di pagina. Su quest’opera cfr. A. Mangione, «Filosofannu?» di Nicola Giuseppe De Donno, in «Note di storia e cultura salentina», XIV, 2002, pp. 185-190.

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