Questa predilezione per una poesia di pensiero si spiega anche con le personali esperienze umane e culturali di De Donno. Com’è noto, la sua formazione è stata principalmente di tipo filosofico. Egli infatti si laurea in filosofia, nel luglio del 1946, presso l’Università di Pisa, dove era stato alunno della Scuola Normale, con una tesi dal titolo La critica della ragione in Biagio Pascal. Relatore, come ricorda egli stesso all’inizio di Filosofannu?, in una lettera a Mangione del 9 aprile 2001, era quel Cesare Luporini, che da lì a poco, nel 1947, avrebbe pubblicato uno studio proprio su Leopardi, Leopardi progressivo, che segnò una svolta negli studi sul poeta di Recanati, insieme con i lavori di Walter Binni e Sebastiano Timpanaro, opponendosi alla visione crociana del Leopardi «poeta idillico» e scoprendo invece una poesia fondata sul pensiero. Sempre di tipo filosofico è stato il suo primo impegno, in quanto Luigi Russo gli affidò la cura della sezione filosofica della sua rivista, appena fondata, «Belfagor». E, ancora, oltre ad avere insegnato storia e filosofia per tanti anni nei licei, prima di diventare Preside del Liceo «F. Capece» di Maglie, ha pubblicato vari saggi su Pascal e Bergson, oltre a dedicarsi agli studi di storia locale, alla paremiologia, ecc.
Ma che significa «filosofare», anzi «filosofannu», con i versi, con la poesia per De Donno? Egli stesso ce lo spiega in quella lettera poc’anzi citata:
Certamente sai che l’etimo di ‘filosofia’ esprime altra cosa da lessemi quali concettualità, teoreticità, metafisicità e, in conclusione, razionalità. Filosofia vale qualcosa come «amore della saggezza». La saggezza non è episteme, scienza. Non è teoreticità, metafisicità, ma valore vissuto. Due cose distinte, quasi contrarie tra loro: come teoresi e sentimento, all’incirca[9].
E, in questo senso, richiamava l’esempio di Pascal, al quale possiamo aggiungere quello di Leopardi, spesso esplicitamente citato nelle poesie.
Dunque, filosofia come «amore della saggezza», intesa in senso lato come disposizione a chiedersi le ragioni della nostra esistenza, del nostro essere qui e ora, hic et nunc. Il suo perciò non è un discorso rivolto agli specialisti, ma a tutti i lettori, anche se in alcuni punti esso risulta piuttosto arduo a causa di riferimenti a teorie filosofiche di svariate epoche.
Partiamo dunque da Palore, che si ricollega direttamente a Lu senzu de la vita, di cui riprende la sconsolata visione dell’esistenza umana, sulla quale incombe, oscura e minacciosa, l’ombra della morte. Ma la morte, per il poeta, non è vista come termine inevitabile della vita, come qualcosa che ci è estraneo fino a quando non si abbatte su di noi, ma come dell’unica certezza che abbiamo («Sulu na cosa è ccerta, sulamente / na cosa: ca se more, nu nc’è ssanti», Penzamenti, «Pensamenti», 49; «Solo una cosa è certa, solamente / una cosa: che si muore, non c’è santi che tengano»). La morte è dunque il dato costitutivo, o per dirla con Heidegger, la più «autentica» dimensione dell’ «esserci», il «modo d’essere che l’esserci assume da quando c’è», per cui l’uomo appunto ‒ son sempre parole del filosofo tedesco ‒ è un «essere-per-la-morte».
E difficilmente dimenticabile, a questo proposito, nel sonetto Ca chiamamu vita («Che chiamiamo vita») è l’immagine, messa ancora più in rilievo dall’iperbato, della morte che tiene per mano il poeta appena nato insieme alla consapevole madre sulla «cieca» strada della vita:
De manu ḍritta, màṭrima sapìa
ca era la morte la sicretamente
de manu manca àuṭra conducente:
mea, soa e dde tutti, ma nu lla timìa. (54)[10]
(«Da mano dritta, mia madre sapeva / che era la Morte la segretamente / da mano manca altra conducente: / mia, sua e di tutti, ma non la temeva»).
Per questo la vita si configura essenzialmente come autopreparazione alla morte. Si legga Mannucchiu su mannucchiu («Mannello su mannello»):
Jeu, ca alla morte la vita priparu
ggiurnu pe ggiurnu, e anzi la nginucchiu,
nun m’è cquataru de culure maru.
Nati nu ssimu, e ggià ne spinge cucchiu
cucchiu la Morte cu llu sṭrummularu
nìuru a llu gnenzi, mannuncchiu mannucchiu. (48)
(«Io, che alla morte preparo la vita / giorno per giorno, e anzi la inginocchio, / essa non mi è passaggio di colore amaro. // Nati non siamo, e già ci spinge da vicino / vicino la Morte con il pungolo / nero verso il niente, mannello su mannello»).
Il tempo che scorre inesorabilmente allora, lungi dall’essere motivo di rimpianto o di nostalgia, è invece sempre più approssimazione a questo fatale momento. Non a caso il nulla («lu gnenzi»), da idea della mente incomincia a diventare ora quasi tangibile, a materializzarsi nel ronzio alle orecchie del vecchio poeta:
Fusce la tila e nnu sse po’ ffermare.
Tra rrichhia e rricchia lu gnenzi me ruscia
ca nu lla cangi comu le sacare,
(Fusce la tila, «Fugge la tela», 37)
(«Fugge la tela e non si può fermare. / Tra orecchia e orecchia il niente mi ronza / che non la si cambia come le biscie»),
oppure nel rumoreggiare delle sue vene:
Lu tiempu te camina, e ccomu vanzi
a llu mbrunire de la via, lu gnenzi,
ca t’era idèa a lla mente, moi cumenzi
ca te ruscia a lle vine…
(Nu tte svacanzi, «Non ti metti in vacanza», 40)
(«Il tempo ti scorre, e come avanzi / verso l’imbrunire della vita, il niente, / che t’era idea nella mente, mo cominci / che ti rumoreggia nelle vene…»).
In certi momenti anzi il pensiero del nulla diventa così forte e insopportabile da desiderare la morte («… duce bbentu / te ddiventa la morte, se la penzi», ivi; «… dolce riposo / ti diventa la morte, se la pensi»).
Il nichilismo, a questo punto, è assoluto. Anche il pensare il nulla, secondo De Donno, al contrario di ciò che riteneva il ‘suo’ Pascal (l’uomo «canna che pensa»), qui esplicitamente richiamato, è nulla:
E gnenti vale
se dici ca penzannu mintimu ale
cu ulamu su llu gnenzi a ttutta altezza.
(Cchiù gnenzi de cusì?, « Più niente di così?», 38)
(«e niente vale / se dici che col pensiero mettiamo ali / per volare a tutta altezza sul niente),
e anche il termine «nonsenso» è privo di senso:
Nunzenzu ète. (Se mai sta palora
tene nu sensu, se nu è scattalora
ca, comu tutte, bbasta jeu cu lla
penzu, e mme scatta am manu e sse spapora.)
(Se sta palora, «Se questa parola», 52)
(«Nonsenso è (Se mai questa parola // ha un senso, se non è castagnola / che, come tutte, basta che io la / pensi, e mi scoppia in mano e si dilegua)»).
Alla luce di questa convinzione si spiega la polemica contro la presunzione umana e ogni idea di grandezza e di immortalità, anche verso la gloria artistica e letteraria, che anzi vengono aspramente derise:
Cce pprisunziusi e ppacci e ssuppunenti!
Aere perennius! Cce immurtalità!
Ca dura, sì e nno, sulu mumenti!
(L’immurtalità de la puisìa, «L’immortalità della poesia», 14)
(«Che presuntuosi e pazzi e supponenti! / Aere perennius! Che immortalità / Che dura, sì e no, solo momenti!»).
Ecco, allora, il motivo dell’infinita piccolezza dell’uomo e del luogo in cui si trova a vivere:
Puntini simu senza dimenzioni
su nna Terra ca pare sterminata
ma cchiùi nu nn’è cca nu puntu, quardata
a lluntananza de costellazzioni.
(Cchiù gnenzi de cusì?, «Più niente di così?», 38)
(«Puntini siamo senza dimensioni / su una Terra che pare sterminata / ma più non è che un punto, guardata / da lontananza di costellazioni.»),
dove sembra collocarsi nel filone ‘cosmico’ della nostra poesia sviluppato da Leopardi, Pascoli e Montale e l’altro motivo, leopardiano, del rifiuto dei conforti ultraterreni, che rendono gli uomini così simili a pupazzi lamentosi: «[La vita] ne mpupazza cusì de cristallorti / spasimanti cunfortu a lli scunfurti», Mannucchiu su mannucchiu, «Mannello su mannello», 48; [La vita] ci rende così pupazzi lamentosi / spasimanti conforto agli sconforti».
Anche le positive certezze d’una volta, gli «assoluti terrestri», nei quali il poeta confessa di aver creduto (l’umanità, la storia, la natura), hanno perso completamente significato di fronte alla scoperta del nulla. La sua individualità, il suo «io», diventa una prigione invalicabile:
tuttu cucciutamente
de na scura simente è ffattu jeu,
sonnu de sonnu a llu nunzenzu meu,
jeu piernu e ccirchiu ca
màncame cu mme llibbru libbertà.
(Testamentu, «Testamento», 31)
(«tutto cocciutamente / da una oscura semente diventa io, / sogno di sogno nel nonsenso mio, / io perno e cerchio da cui / mi manca libertà di liberarmi»),
che lo costringe a restare chiuso in se stesso con i suoi tormenti, spingendolo verso una sorta di scetticismo gnoseologico, che lo porta a dubitare perfino della oggettiva esistenza della realtà esterna, come emerge proprio da Testamentu, la composizione più complessa concettualmente della raccolta, influenzata dalla filosofia dell’Atto puro di Gentile, che verrà riproposta nella successiva raccolta.
Anche la poesia ovviamente, per De Donno, non può che soccombere dinanzi alla spaventosa potenza del nulla. Tutt’al più, nel buio assoluto dell’esistenza, le parole della poesia si possono accendere per un attimo soltanto, la «illusione fessa», (l’«illusione sciocca», 39) che esse possano far vivere il loro autore dopo la morte. Ma appunto, si tratta solo di un’illusione, perché anch’esse scompaiono non appena la morte le sfiora. Ciononostante si scrive – sostiene il poeta in Pe cci scrivi? («Per chi scrivi?») – per sentirsi vivi («Mmodu mme pariu viu», «Per parermi vivo», 25). Così ogni giorno ripetiamo meccanicamente all’infinito gli stessi identici gesti, le stesse identiche azioni per sfuggire al vuoto di un’esistenza priva di senso, al nostro horror vacui, come tanti fantocci, manichini, privi di vita vera:
Ogne ssira ogne mmane lu curpettu
li càusi te li spoji te li minti
ogne ccurcare e ausare de lu lettu
e lle scarpe e llu ggiaccu. A ddieci a vvinti
a ccentu, sempre pari, vai suggettu
riti, fiti, ricinti, labbirinti,
usi senza cusṭruttu nè ccuncettu:
li tanti gnenti ca te campi e ssinti.
Gnenti su gnenti, se inche de vacante
la sciurnata. Sciurnata su sciurnata,
se svacanta lu tiempu. Sta a rricinti
nvisìbbili de tile de tarante
cchiù fforti de lu zzarru ricintata
la vita. Pupi simu, pupi finti.
(Pupi, 45)
(«Ogni sera ogni mattina il corpetto / i calzoni te ne spogli te li metti 7 a ogni coricarsi e alzarsi dal letto / e le scarpe e la giacca. A dieci a venti // a cento, sempre uguali, vai soggetto / riti, giri, recinti, labirinti, / usi senza costrutto né concetto, / i tanti niente con cui ti riempi e sei. // Niente su niente, si empie di vuoto / la giornata. Giornata su giornata, / si svuota il tempo. Sta in recinti // invisibili di tele di ragno / più forti dell’acciaio recintata / la vita. Pupi siamo, pupi finti»),
dove si può riscontrare una qualche affinità con l’immagine degli uomini-«automi» di uno dei più famosi Mottetti delle Occasioni (Addii, fischi nel buio) di Montale o con altre sue immagini consimili, presenti negli Ossi di seppia (gli «uomini che non si voltano» di Forse un mattino…, gli «incappati di corteo» di Incontro).
Nemmeno la scomparsa del figlio Luigi, a cui è dedicata la terza, intensissima sezione del libro, Circhiu ccantatu («Cerchio ferrato») incrina le convinzioni materialistiche di De Donno, il quale, pur vivendo un intimo dissidio tra cuore e ragione, continua a ritenere che tutto avvenga «pe ccumbinazione» (63), cioè «per caso» e non ci siano interventi soprannaturali a cambiare il corso delle vicende umane. Anche per questo non crede sia possibile comunicare tra vivi e morti, divisi da un mare che non si può varcare («Ṭra lla morte e lla vita nc’è nnu mare / ca màncane llu mmarchi bbastimenti», Spettu…, «Aspetto…», «Tra la morte e la vita c’è un mare / che mancano bastimenti al varcarlo», 66), ma uniti tra di loro dal nulla, l’implacabile «gnenzi»:
E pperò morti e vvivi pari gnenti
suntu, e llu gnenti è ttuttu: morti e vvivi,
e ccelu e tterra, e llegrità e ṭṭrumenti.
( ivi)
(«E però morti e vivi uguali niente / sono, e il niente è tutto: morti e vivi, / e cielo e terra, e allegrezza e tormenti»).
Il niente è come un terribile buco nero che attira e inghiotte ogni cosa, a poco a poco ma irresistibilmente, dentro di sé, anche lo stesso universo:
… Nno, nu nc’ète scampu,
fiju, a llu gnenzi. Se scununna a ḍḍai
tuttu de tutti. Lu stiḍḍatu nteru,
morti ca simu nui, è nnu bbucuneru.
(Quarant’anni, osci, «Quarant’anni oggi», 67)
«… No, non c’è scampo, // figlio, dal niente. Si sprofonda lì / tutto di tutti. Lo stellato intero, / morti che saremo noi, è un buco nero»).
E sa bene che pure il dolore per la perdita delle persone care e il loro stesso ricordo sfocieranno inevitabilmente nel nulla.
Ora, ciò che colpisce in Palore non è tanto questa concezione nichilistica, che si rifà a una precisa corrente di pensiero (da Pascal a Leopardi, da Kierkegaard a Schopenhauer, da Nietzsche ai filosofi novecenteschi dell’esistenza, come Heidegger, con i quali abbiamo già indicato qualche punto di contatto), quanto la sua concreta realizzazione poetica o anzi, per dir meglio, il contrasto tra questa e quella. A una visione così totalmente negativa dell’esistenza fa riscontro infatti una materia poetica estremamente ricca, vitale, a tratti perfino compiaciuta di sé, che sembra contraddire almeno in parte quegli assunti. De Donno dispiega nella raccolta, con suprema naturalezza, un grado elevatissimo di perizia retorica, linguistica, metrica, coerentemente con la sua idea della poesia come «mmùsica de senzu e dde parola» («musica di senso e di parola», 18). Un gioco intrecciato e continuo di metafore, di figure etimologiche, di enjambements, di iperbati, di ripetizioni, di effetti fonosimbolici, di prestiti e citazioni lessicali, di rime ipermetre o interne conferisce a queste composizioni una straordinaria pregnanza espressiva, a cui si aggiunge, in quelle dedicate al figlio scomparso, un’avvolgente, tutta interna, musicalità, che rappresenta l’estremo omaggio del padre-poeta alla sua memoria.
Diamo solo qualche esempio dei procedimenti e delle tecniche più usati. Partiamo dalle metafore che sono utilizzate per definire la condizione umana, tratte spesso dalla realtà meridionale e, in particolare, dal mondo del lavoro, così ben conosciuto e indagato da De Donno[11]. Formidabile è quella del «cerchio ferrato» («circhiu ccantatu», 30, 31,76) che serve al poeta per definire la propria individualità, simile a un carcere invalicabile e causa dei tormenti più acuti. E una sorta di ‘metafora ossessiva’ è anche quella del «chiodo piantato nel cervello» («… Me sta stu chiòu / fissu chiantatu a lla mituḍḍa…», 64, ma anche 67, 87), a indicare la propria convizione, «dolorosa ma vera», per usare un’espressione di Leopardi. Altre immagini ricorrenti sono quella della «pietra di confine» negli appezzamenti di terreno (la «finita», 21, 54) a definire il termine dell’esistenza o quella delle «tele di ragno» (le «tile de tarante», 45 e le «langhitire», 56, 58) che stanno a indicare l’inestricabile recinto in cui gli uomini si trovano a vivere.
Si noti anche il ricorso costante alle figure della ripetizione, finalizzate spesso da De Donno per mettere in rilievo le parole chiave del suo pensiero. E qui indicherò un solo esempio per ogni fenomeno, servendomi dei termini della retorica classica. Epanalessi («Ma è lla Morte, la Morte la cchiù fforte», «ma è la Morte, la Morte la più forte», 48); epizeusi («se gnenzi, gnenzi, gnenzi ne rrumane», «se niente, niente, niente ne rimane», 21); anadiplosi (ancora e sempre «… la notte de lu gnenzi.// Gnenzi, ca se lu penzi nu lli penzi», «… la notte del niente. // Niente, che se lo pensi non gli pensi», 21); epanadiplosi («vane palore a ttante carte vane», «vane parole in tante carte vane», 21); anafore («d’inṭra lle vine soi, vistu m’àe mie / d’inṭra le vine soi, frate de Cristu», «da dentro le vene sue, visto ha me / da dentro le vene sue, fratello di Cristo», 88); paronomasie («ugnunu canta e ccunta a ccuntu sou», «ciascuno canta e canta per conto proprio», 24); polittoto («lu nfinitu vacante de vacante», «l’infinito vuoto di vuoto», 21); figure etimologiche («… a ll’àuṭru mare / ca me mareggia an fundu…», «… all’altro mare / che mi mareggia nel profondo», 59); allitterazioni, spesso con intenti fonosimbolici («cu ngroffulisciu e mme sbaisciu susu», «a ronfare e sbavarmi addosso», 72).
Un discorso a parte andrebbe fatto poi per il personalissimo dialetto magliese di De Donno, più che mai «lingua della poesia», un singolare impasto lessicale in cui, accanto a voci antichissime e a prestiti o adattamenti dall’italiano, figurano anche, fra l’altro, espressioni latine citate («Aere perennius», 14; «fede diricta», 63, adattate («Vànita svanitati ettonni vànita!», 49); e in Filosofannu? «l’icchinonni», 21) o tradotte quasi alla lettera («… ula chiamante / te canusci an desertu…»,13), neologismi in lingua (come l’imprevedibile «videata», 20) e perfino anglicismi (come «the End», 19).
Come pure amplissima, in campo metrico, è la tipologia delle rime. Si va dalla rimalmezzo («Sulu a lle langhitire / de stu mbrunire meu ca va a lla morte / ài spalangare porte. Pe li dire», «Solo alle tele di ragno / di questo crepuscolo mio che va alla morte / hai da spalancare porte. Per dire loro», 58), alla frequentissima rima ipermetra (umane : rrumànene, 14), dalla rima franta («ca ète : mete : pruete : ca se te», 41), alla rima identica (non a caso gnenzi : gnenzi, di cui si trovano due esempi, 38 e 55) alla serie di rime in rapporto etimologico tra di loro (porti : morte : porte : morti, 48).
(Continua)
[In A. L. Giannone, Sentieri nascosti. Studi sulla Letteratura italiana dell’Otto-Novecento, Lecce, Milella, 2016]
[1] Per una bibliografia di e su Nicola G. De Donno si rinvia a D. Valli, Letteratura dialettale salentina. Dall’Otto al Novecento, Congedo, Galatina 1995, tomo II, pp. 686-694; Id., Storia della poesia dialettale nel Salento, Congedo, Galatina 2003, pp. 217-227.
[2] Valli, Nicola G. De Donno tra sentimento e ragione, introduzione a Nicola G. De Donno, La mia parabola (Sonetti scelti), Manni, San Cesario di Lecce 2004, p. 14.
[3] De Donno, Lu senzu de la vita. Prefazione di A. Stella, Scheiwiller, Milano 1992.
[4] Id., Cronache e paràbbule. Presentazione e riduzione in prosa italiana di D. Moro, Edizioni del Centro Librario, Bari/S. Spirito 1972.
[5] Id., Paese. Introduzione e riduzione in prosa di D. Valli, Capone, Cavallino di Lecce 1979.
[6] Id., Mumenti e ṭṭrumenti. Introduzione di M. Corti, Manni, Lecce 1986.
[7] Id., Palore (1988-1998). Postfazione dell’editore, Scheiwiller, Milano, 1999.
[8] Id., Filosofannu? Cu lle vite, la Vita? Ma la vita è scura. Discorrendo con Antonio Mangione, Grafiche Panico, Galatina 2002.
[9] De Donno, Discorrendo con Antonio Mangione, in Id., Filosofannu?, cit., p. 9.
[10] Le nostre citazioni sono tratte da De Donno, Palore, cit. Ai versi segue il numero di pagina.
[11] Si veda, ad esempio, De Donno, Oppressione e resistenza nei proverbi di lavoro salentini, Messapica editrice, Lecce 1978.