No alla scuola di ieri per l’uomo di oggi (1974)
Il buon senso è prevalso. Il conflitto tra la Corte dei Conti ed il Ministero della Pubblica Istruzione per l’approvazione degli organi collegiali della scuola istituiti con i Decreti Delegati, si è risolto bene. I Decreti passano.
Non c’è dubbio che la contestata approvazione degli Organi collegiali da parte della Corte dei Conti costituisca l’ultimo atto, in ordine di tempo, del mondo della conservazione culturale e sociale, al fine di non alterare la selezione di classe nella scuola italiana e di impedire alle masse popolari l’accesso ai gradi più elevati della cultura qualificante. Una scuola degna di questo nome deve promuovere una cultura fondata sull’unità del sapere, che non può essere conseguito mediante la tradizionale frammentazione del sapere medesimo in “materie” impenetrabili come compartimenti stagni. Nella storia del pensiero abbiamo esempi di unificazione della cultura mediante qualificanti indirizzi di ricerca. Si pensi al metodo propugnato da Leonardo secondo esperienza, a quello di Diderot secondo ragione, a quello di Marx secondo storia.
In Italia si ha per la prima volta un movimento unitario nella vita della scuola con la istituzione nel 1962 della Scuola media unica. Questa riforma scolastica nasce dalla confluenza oggettiva verso fini diversi degli impulsi provenienti dal movimento operaio, bracciantile e contadino, e contemporaneamente dalla ristrutturazione del potere industriale-capitalistico. Il movimento operaio, bracciantile e contadino, difatti, con la scuola di massa mira a vanificare la presenza dei “due popoli”, il colto e l’incolto, all’interno della stessa comunità nazionale. Il mondo industriale-capitalistico, invece, ravvisa nell’espandersi della scolarità e dell’istruzione di base una sorgente inesauribile di profitto, mediante forniture di beni, strumenti e servizi a vari livelli. Si concretizza così la logica interna del capitale destinato a una ricerca ininterrotta della produttività, la quale comporta inutilizzazione e distruzione delle risorse umane. Si pensi alla gigantesca attività editoriale per la produzione dei libri di testo, alla quantità enorme di filmini, di attrezzature e di vario materiale che giace perlopiù inutilizzato nei laboratori degli istituti, alla suppellettile che è stato necessario fornire, per tacere delle forme di spreco presenti a monte e a valle delle su citate prestazioni.
Senonché, in una nazione come l’Italia che dà prove costanti di crescita civile e politica (si pensi al referendum del 1946, alla bocciatura della legge truffa del 1953 ed alla recente battaglia per il divorzio), la svolta positiva della Scuola media unica diventa, per alcuni settori reazionari dell’opinione pubblica, pericolosa, se essa è estesa all’istruzione superiore, tecnica ed umanistica. L’istruzione superiore deve continuare ad essere appannaggio delle classi dominanti o perlomeno deve essere governata secondo i loro interessi, e perciò bisogna opporre resistenza alla volontà popolare di crescita culturale e civile. Qual è il metodo più spedito per rendere efficace la resistenza e conseguire tale fine? La creazione di una spaccatura tra la Scuola media riformata e gli Istituti superiori, affinché questi permangano in uno stato di inefficienza assoluta. Il circolo così si chiude nella certezza che alle masse popolari è impedita l’assimilazione di una cultura vera autentica qualificante.
Esaminiamo ora attraverso quali fasi si realizza questo processo fallimentare della nostra scuola.
PRIMA FASE. Si comincia col non apportare i dovuti ritocchi, tante volte promessi, alla Scuola media unica. Il primo problema che si presenta è quello del Latino. Si liberalizzano gli accessi all’università, ma si seleziona l’ingresso al Ginnasio-Liceo mediante il Latino, per lo più studiato nella Scuola media in modo inadeguato. Non si comprende che la mediazione del Latino è il mezzo più efficace per sviluppare la capacità linguistica del ragazzo, la quale soltanto promuove le operazioni della mente, e per fargli recuperare la capacità espressiva che l’ambiente familiare spesso non fornisce. Si dia invece a tutti i nostri ragazzi il mezzo per l’acquisto della duttilità mentale, lasciando che soltanto circostanze e mancanza di doni naturali impediscano di avvalersene. Il Latino asseconda quasi in tutti il ritmo naturale di apprendimento.
L’altro problema è quello relativo alle Scienze nel biennio degli Istituti superiori. Attualmente le Scienze o vengono dimenticate dagli allievi per uno o due anni, prima di essere riprese senza alcun addentellato con quanto si svolge nella Scuola media (è quello che accade nei Licei, dal momento che nelle due classi di Ginnasio lo studio delle materie scientifiche non è affatto programmato), oppure negli Istituti tecnici esse vengono piuttosto compresse nei contenuti e nel valore formativo. Si verifica poi l’assurdo che un giovane che ha conseguito la maturità negli Istituti tecnici può accedere ad un corso susseguente di specializzazione in materie scientifiche o umanistiche. In questo modo viene vanificato quello che dovrebbe essere il fine essenziale del biennio dei nostri Istituti superiori: 1) portare a termine la formazione dell’individuo; 2) fornire le informazioni basilari necessarie per un inserimento dialettico nella società; 3) svolgere una funzione di orientamento, e di rimandare così il momento della scelta di un indirizza.
Questo fine, come si vede, non può essere conseguito spezzando il ciclo evolutivo del pensiero formale. Interrompendo nel Ginnasio per due anni lo studio delle Scienze iniziato nella Scuola media unica, o comprimendolo negli Istituti tecnici, si impedisce ai nostri ragazzi l’acquisizione della capacità sintetica e astrattiva. In una parola, si impedisce loro la scelta e la autonoma deliberazione. Così la scuola viene meno ad un suo compito etico ed istituzionale.
SECONDA FASE. La seconda fase si concretizza mediante la politica dei ministri democristiani, quasi ininterrottamente succedutisi per trent’anni alla Pubblica Istruzione, sempre volta ad una condotta soverchiamente indulgente, che ha determinato lo sfrondamento e l’alleggerimento dei programmi, le facilitazioni agli esami, le sanatorie nelle procedure ed i rinvii nelle prescrizioni. In concreto, quello che si dice il lassismo della scuola italiana.
Questa prassi lassista si incardina e si svolge in due momenti: a) nel vecchio esame di Stato e b) nella spaccatura sempre più profonda tra la scuola umanistica (il Liceo classico) e gli indirizzi scientifici, tecnici e professionali.
In quali condizioni di preparazione, difatti, giungono i nostri giovani all’esame di Stato? Quale grado di maturità possono accertare le Commissioni? E infine, quale prova danno i nostri giovani di avere conseguito le capacità necessarie per seguire gli studi superiori di un determinato ordine?
E’ opportuno segnalare inoltre l’eccesso di giovani (e forse sono i più seri) che, prima di immatricolarsi all’università, vanno a lezione per tentare di colmare carenze e lacune nelle discipline formative del corso che hanno scelto. Tutto ciò dipende, oltre tutto, dal fatto che gli allievi dell’ultimo anno degli Istituti superiori rinviano l’impegno serio di preparazione al momento in cui il Ministero rende note le materie d’esame, vale a dire a non prima del 15 aprile di ogni anno.
Accade poi che nella scelta delle discipline si tende a sacrificare le materie scientifiche nel Liceo classico, e viceversa, quelle umanistiche nel Liceo scientifico. Abbiamo così giovani del Liceo classico dichiarati maturi nonostante la loro preparazione gravemente lacunosa in Matematica o in Scienze, e i giovani del Liceo scientifico che ignorano, ad esempio, i problemi di storia del Novecento.
Quali sono le conseguenze di tale processo di avvilimento degli Istituti superiori? Innanzitutto prende quota la cultura elitaria nei confronti di quella popolare. La disgregazione della scuola di Stato riqualifica, per converso, le scuole private a pagamento, che sono gestite la maggior parte secondo un indirizzo di cultura ed uno spirito gesuitico-confessionale e covano nel loro seno l’insidia antidemocratica, quell’insidia che spesso emerge e serpeggia, come vena sotterranea, nella società italiana.
Conseguenza ancor più grave di questo stato di cose è, però, la vanificazione dell’unità del sapere. Nei nostri Istituti superiori il processo del sapere nel giovane è mortificato, perché viene interrotto l’ordine logico delle conoscenze.
Noi riteniamo che come nel corpo umano si attualizza la funzione di tutte le articolazioni delle membra, così nello studio, che è ricerca e volontà, emersione dell’ordine dal caos, deve concretizzarsi tutto l’essere del giovane, e non soltanto una sola delle sue facoltà, la memoria o l’intelligenza. Soltanto così lo studio pone i nostri ragazzi in contatto con la storia, cioè con i processi reali in mezzo ai quali vivono e di cui essi stessi sono protagonisti.
Ecco allora la funzione degli Organi collegiali della Scuola: i Consigli di Circolo e di Istituto, il Consiglio di Distretto ed il nuovo Consiglio provinciale scolastico che venti milioni di Italiani saranno chiamati ad eleggere nel prossimo anno, purché sappiano svincolare il loro voto dalla faida dei partiti.
Ogni cittadino che sia pensoso ed assennato deve rendersi conto che per la prima volta nella nostra storia unitaria la scuola, che è stata sempre lo strumento essenziale per la divisione della nazione in classi, è chiamata a rinnovarsi democraticamente. Di questo rinnovamento, la componente più importante, insieme agli alunni e agli insegnanti ed ai rappresentanti degli enti locali, saranno i genitori che, come cittadini fruitori di un servizio sociale, la Scuola è chiamata ad educare perché attraverso di essa passa l’elevazione della qualità della vita. La massa elettorale dei genitori diventa così massa di lavoratori e di cittadini impegnati a risolvere i problemi dell’istruzione. Viene così abolita la secolare frattura della scuola con l’ambiente esterno, perché non solo la scuola è fonte di istruzione, ma anche il mondo che la circonda, l’industria, la fabbrica, la campagna, l’ospedale, in una parola quello che abbiamo chiamato il mondo dei processi reali, cioè la storia.
Il Distretto dovrebbe costituire la sede nella quale si realizza un organico rapporto tra scuola e società e si riconduce ad unità la programmazione dei vari aspetti della vita scolastica, di cui parte essenziale è l’edilizia oltre che la medicina scolastica. Di qui la necessità di assicurare largo spazio nell’organo del Distretto alla rappresentanza dei Comuni (autentica espressione delle Comunità locali e naturali destinatari delle deleghe regionali in materia di diritto allo studio). Se si vuole ottenere successo nelle riforme, bisogna contemporaneamente trasformare la struttura istituzionale nello Stato. Non v’è ragione perché non avvenga nella scuola quello che è avvenuto nella fabbrica. Assemblee, consigli di reparto, consigli di fabbrica sono gli organi democratici del movimento operaio. Consigli di Circolo e di Istituto, Consiglio di Distretto e nuovo Consiglio provinciale scolastico saranno gli organi democratici della Scuola. Se un pensiero viene in questo momento alla mente di chi scrive, nella sua qualità di educatore, esso dice tutta l’amarezza di chi constata che questa volta è la scuola che, restata alla retroguardia, ha avuto bisogno di immettere nel suo seno, come forza vivificante e di rinnovamento e come elemento di spinta, il potenziale organizzativo sindacale e politico proprio della classe operaia, anziché farsi essa stessa forza trainante della società. Noi confidiamo che la scuola non verrà meno ai suoi nuovi compiti. Verrà così vanificata anche la teoria di chi postula al morte o contesta il ruolo della scuola. E’ una teoria insidiosa, che si fascia di un involucro di potere conservatore. Difatti essa salta il problema del mutamento delle istituzioni nel cui quadro si può trasformare la scuola, togliendola dalla sua arretratezza culturale, dalla carenza di iniziativa riformatrice e dall’isolamento rispetto al mondo del lavoro e dei settori produttivi. Una istituzione diversa sarà sempre la scuola-baracca, la scuola di ieri.
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Il ruolo del latino
L’entrata in funzione degli Organi collegiali ci sembra l’occasione più opportuna per stimolare in tutti gli interessati la riflessione sul ruolo del Latino nella scuola italiana, ruolo avvilito dalla irresponsabile legislazione in merito che dura immutata dal 1962 ad oggi.
Il Latino è davvero una lingua morta? Essa è certamente una lingua che ha chiuso il ciclo della sua esistenza, ma è proprio questa una buona ragione per servirsene come di uno strumento atto a raggiungere un fine concreto, di una concretezza ideale e non meccanica, consistente nel ricomporre in unità tutta un’epoca storica. Il Latino così è una lingua morta che tuttora vive. Il giovane deve accostarsi ad esso con quello studio filologico che aderisce alla storia e vanifica ogni mentalità astratta e dogmatica. Lo studente connettendo causa ed effetto si avvezza a non trascurare niente della realtà che esamina, e quest’abito lo caratterizzerà anche da futuro cittadino.
Per ottenere questo risultato, lo studio del Latino deve essere perfezionato, più di quanto non si faccia ora, nelle classi di collegamento, e impostato su basi diverse sin dalla Scuola media unificata dell’obbligo. Attraverso gli esercizi di lingua nella traduzione latina-italiana emergerà allora un fatto molto preciso: l’identità dei termini delle lingue poste a confronto si allontana sempre più da una serie di uguaglianze (rosa italiano = rosa latino) per trasformarsi in peculiarità linguistiche, il cui studio è finalizzato al giudizio storico ed estetico. Viene naturale al docente mettere in evidenza che all’interno della lingua latina varia la parola suono e cambia inoltre nel periodo la funzione morfologica, sintattica e semantica di essa. A capo di questo processo si dovrebbe registrare da parte del discente la conquista impareggiabile del senso della storia, la sola conquista destinata a ribaltare la linea involutiva della scuola italiana.
Senonché non è un mistero per nessuno che anche nelle ultime classi degli Istituti superiori, diventano sempre più frequenti i componimenti di lingua italiana dove si leggono periodi con la grammatica e con la sintassi a barzelloni, redatti da chi, si direbbe, è in preda a delirio iacoponico: costrutti paratattici nei quali il significato dovrebbe scaturire dall’accostamento di due idee che, invece, non solo non si fondono sul piano formale, ma spesso a malapena riescono a trovare un legame implicito; costrutti ipotattici nei quali non si rispetta il rapporto delle proposizioni, perché non lo si ordina secondo una gerarchia. Nel primo caso si rompe l’ordine della spontaneità, dell’immediatezza e della colloquialità che si vorrebbe conseguire, nel secondo viene meno la letterarietà della rappresentazione riflessa, perché è mancata nel giovane la sorveglianza intellettualistica.
Nessun dubbio che la causa di tutto ciò sia da ricercare nella mancata acquisizione delle strutture fondamentali della lingua latina. La prima scienza di ogni studente è la grammatica italiana; ma l’Italiano, con cui il Latino è continuamente confrontato, è Latino moderno. Se ne deduce che studiare il Latino è studiare (meglio!) l’Italiano.
Inoltre lo studio della lingua latina risponde anche ad un principio educativo avvivato da una prospettiva culturale disinteressata, e non pratico professionale. Lo sviluppo interiore della personalità e la formazione del carattere si attuano in questa prospettiva attraverso l’assorbimento e l’assimilazione di tutto il passato culturale della moderna civiltà europea. Si tratta di mète educative fondamentali che al legislatore sono misteriosamente sfuggite. Esse si conseguono mediante abitudini di diligenza, di esattezza ed anche di concentrazione psichica che certamente sono fornite dallo studio del Latino. Senza quelle abitudini, come non emerge il grande studioso capace di stare a tavolino sedici ore al giorno, come ha fatto Benedetto Croce, così non nascono nella misura necessaria i cittadini metodicamente positivi e probi, e si sa che ogni civiltà ha bisogno dell’uno e degli altri.
Lo studio della lingua latina, quindi, deve confluire e risolversi nello studio del processo storico che ha prodotto la nostra civiltà, nell’analisi del suo sorgere e della sua morte, cui fa seguito, come si è detto, la sua rigenerazione in nuove forme. In questo modo il giovane diventa protagonista di esperienze logiche, artistiche e psicologiche che riescono tanto più proficue e formative, quanto più esse sono lontane da scopi pratici troppo immediati.
La legislazione scolastica in Italia, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, è stata gattopardesca. Si è voluto cambiare tutto per lasciare le cose immutate, e col pretesto di estendere l’educazione e la cultura al popolo, agli operai ed ai contadini, dopo la riforma della Scuola media unificata del 1962, la scuola è andata avanti con una serie farraginosa di provvedimenti che è ingenuo credere di origine demagogica, perché nella loro realtà e nei loro effetti, essi sono di stampo positivistico. Essi, difatti, arretrando dalla linea idealistica, sono volti a consolidare una cultura inferiore, di grado più bassa, per le classi fino ad oggi alienate. I braccianti, i contadini, gli operai, gli artigiani sanno che non si può cambiare la società se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e che oggi si vuole sostituire e modificare. Lo strumento per procacciare questa conoscenza è il Latino, che è stato il fulcro della cultura italiana dall’Unità ad oggi, una cultura che è stata di pochi, perché a pochi è stato consentito l’accesso a quella lingua.
A tutti gli uomini alienati bisogna perciò dire che la cultura è sempre umanistica, e sempre e soltanto un attivo processo di liberazione umana, è conquista di metodo critico e storico. Nel secolo scorso la nobiltà ed il clero hanno cessato di essere classi privilegiate ed hanno perduto il loro potere, quando la borghesia si è impossessata degli strumenti della loro cultura e, fra tutti del Latino. Ecco perché noi riteniamo che nelle classi alienate della società contemporanea il Latino è ancora destinato a svolgere un ruolo di prim’ordine, nel senso che esso può accelerare nell’individuo lo sviluppo della coscienza della storicità, che inserisce l’uomo nella storia viva e gli dà la misura delle contraddizioni presenti nella società. E’ pura menzogna che il Latino sia una disciplina idonea soltanto ad una scuola fatta su misura per una società immobile, fondata sugli impieghi e sulle rendite, che vuole conservare la sua tradizione e il suo prestigio formale. E si aggiunga che l’industria penetrata in citta e in campagna rende necessario un nuovo tipo di intellettuale da formare nelle scuole professionali specializzate. E’ questo il solo modo di essere autentici conservatori e reazionari. Basti pensare che nelle scuole professionali specializzate il destino dell’allievo e della sua futura attività sono predeterminati naturalmente da chi detiene il potere. Cioè vi è chi, in un certo senso, ha coscienza e decide per lui, in quanto gli si addebbita uno stato di minorità, di incapacità a valersi del proprio intelletto. Ecco allora chiamati in causa i braccianti, i contadini, gli operai, gli artigiani che faranno parte degli Organi collegiali della scuola. Ad essi si offre un’occasione irripetibile per diventare gruppo di pressione affinché, mediante i ritocchi al Latino nella Scuola media unificata dell’obbligo, si spezzi la trama che anche dopo il 1962 ha perpetuato in Italia il sistema che assegna un proprio tipo di scuola ad ogni gruppo sociale.
La soluzione, secondo noi, sta in un tipo unico di scuola preparatoria che comprenda anche le attuali classi di collegamento (i primi due anni degli Istituti superiori). Di questa scuola il Latino deve essere la disciplina qualificante, che conduce il giovane fino alla soglia della scelta professionale, ma solo dopo aver destato in lui impulsi atti a farne una persona capace di pensare, studiare e dirigere o controllare chi di rigore. Se la scelta del giovinetto, invece, cade su di un’attività strumentale, il Latino con tutto ciò che richiede (diligenza, precisione e concentrazione) lo avrà preparato anche per questo.
Non sfugga che quando si è voluto assoggettare un popolo, si è fatto ricorso all’arma dell’imbarbarimento culturale e linguistico. Nel 1798 Napoleone, per assoggettare l’Italia alla Francia e la Francia a se stesso, impone al Gran Consiglio della Repubblica Cisalpina il voto di sopprimere l’insegnamento della lingua greca e latina; ed il Foscolo scrive allora il sonetto Te nutrice alle Muse, ospite e dea… dove presenta l’Italia, ad onta delle avverse fortune, come eterna nutrice ed ospite della poesia, in quanto in Italia vive la lingua latina che avvolge di regali allori anche la condizione di servitù e ne rende il peso più lieve.
La riforma Gentile durante il fascismo ha fatto del latino la discriminante per la formazione di una classe destinata a dominare. Pe converso, chi legga I Promessi sposi del Manzoni, si rende conto che in più luoghi (capp. II, VIII, XIV, XVIII e XXXVIII) il romanzo è traversato dal motivo del latino birbone, fatto per aggirare gli ingenui e mettere nel sacco il prossimo. Ci sembra anche questa una ragione di più per studiare con maggiore diligenza una disciplina che, nella misura in cui è stata strumento di esclusione, può diventare mezzo di liberazione*.
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Meditazioni di un commissario
(Maturità classica 1975-76)
Il viso pallido e scarno, sulle braccia un pila di libri dispoti gli uni sugli altri, si aggira negli anni Venti e Trenta per i corridoi del vecchio Liceo “P. Colonna” di Galatina il giovane candidato agli esami di maturità classica. Una pila di libri! Omero, Virgilio, Dante, ma anche i minori, la storia letteraria del Rossi, del Flamini o del Venturi, il manuale di filosofia dell’Ambrosio o del Morselli o dell’Aliotta e così via. Ed il giovane candidato appare perciò agli occhi dei più un potenziale mostro di scienza. Nel luglio dell’anno che volge, chi scrive può testimoniare che i candidati che si sono presentati alla Commissione di maturità classica con la pila di libri più alta sono stati quelli che hanno compiuto il corso di studi liceali col trotto dell’asino, e sappiamo tutti che il trotto del mammifero equino dalle lunghe orecchie dura poco. Che poi in un asino si sia incarnato lo scrittore Apuleio e che dell’asino si parli comne d’un Marc’Aurelio dei prati, cioè di un filosofo, può essere soltanto un motivo di consolazione. Per converso, bisogna dire che il colloquio più vivo e più intelligente ha avuto come protagonisti quei candidati che hanno messo da parte il testo scolastico, perché considerato il frutto di un peccato di superbia ed hanno scelto da sé un poeta o uno scrittore per un’indagine aspra, severa e difficile. Quei candidati sono penetrati così nella vita vera, hanno compreso, vissuto e sentito la personalità dei grandi scrittori, giungendo persino a cercare e a discutere i critici del poeta o dello scrittore d’elezione. Tutto ciò dimostra che la scuola può dare, se è vera scuola, l’educazione alla vita ed alla riflessione critica.
La riforma Croce-Gentile
Cinquant’anni fa con la riforma Croce-Gentile sono stati esclusi dalla nostra scuola i manuali ed i trattati ispirati alla vecchia maniera positivistica, perché sono stati giustamente considerati come vangeli senza poesia e senza pensiero. In essi, nel compendio, l’arte si è perduta, e si è smarrita la visione dell’ideale, e quando non si giunge all’arte non si giunge alla critica. Invece dei manuali e dei trattati, o accanto ad essi, sono entrati nei nostri licei gli autori ed i testi originali, quelli o discoperti o valorizzati nel ripensamento neoidealistico della nostra storia letteraria, filosofica e politica. Si pensi, ad esempio, alla rivalutazione ad opera di Croce, di Federico della Valle; inoltre, si rammenti che per l’Italiano nei Licei classici il numero degli autori, che nel 1926 è già di 66 tra grandi e piccoli, nei programmi del 1930 è salito a ben 76.
La cultura marxista
Nel secondo dopoguerra è accaduto un fatto importantissimo, scarsamente valutato, se non sfuggito, a buona parte della classe docente, con gravi ripercussioni nel mondo della scuola.
Il neoidealismo, dopo aver funzionato come ideologia intellettuale della società italiana e dopo essere stato un fattore equilibrante in senso conservatore nei confronti delle tensioni acutissime del tempo, è stato superato e non riconosciuto più come mezzo ideologico atto ad organizzare secondo schemi reali gli intellettuali in un ordine chiuso ed in un ceto distinto rispetto al ceto politico ed alla classe dominante. Al posto del neoidealismo, o accanto ed in concorrenza con esso, si è venuta affermando la cultura marxista con la sua dottrina, le sue idee e la sua metodologia. La scienza, quindi, considerata dal neoidealismo come uno dei gradi del sapere alla pari dell’arte o della religione ed esclusa per lungo tempo dal processo educativo, è tornata a farne parte, distinta in scienze umane e naturali. I nostri giovani possono oggi accedere all’apprendimento della biologia e della genetica, dell’antropologia e della psichiatria, della sociologia e dell’etnologia, con testi e strumenti ignoti cinquant’anni fa, arricchendo ed ossigenando la propria cultura. Il giovane scopre da sé, quando non ha la fortuna di avere nel professore un valido collaboratore, la collana feltrinelliana Filosofia della Scienza diretta da Ludovico Geymonat e si aggiorna sulle correnti filosofiche contemporanee come il pragmatismo, il neorazionalismo, il neopositivismo, nate dalle esperienze delle società industriali, e prende posizione sui problemi vivi della società contemporanea nati dallo sviluppo della scienza e della tecnica. Non arriviamo al punto di rifiutare il manuale, ma crediamo di poter affermare che tra gli uomini che vivono nella scuola nessuno può dire, in coscienza, di non poter contare su giovani, anche numerosi, che esprimono interesse verso contenuti che vanno al di là dei manuali medesimi. Ciò, invece, su cui non si può contare, sono le strutture scolastiche, o perché inesistenti o perché inadeguate ad assecondare quegli interessi. Leopardi e gli antileopardiani studiati recentemente da Sebastiano Timpanaro negli articoli su “Belfagor”, un saggio antropologico sulla liturgia nazista di Hitler per la conquista del potere, per fare solo due esempi, hanno dato tono ai colloqui della maturità classica del nostro Liceo. In quei casi il manuale è stato superato.
Economia, organizzazione politica, letteratura
I giovani non vogliono nei licei un’infarinatura numero due che integri l’infarinatura generale di storia che ha dato loro il ginnasio o le classi di collegamento. Vogliono sapere, invece, come si fa la storia, e chiedono di studiare un periodo storico soprattutto nei problemi spirituali e sociali e culturali che vi sono sorti e si sono agitati. Allora si fa veramente storia viva e si offre ai giovani di studiare un organismo completo, di capirlo e di comprendere in esso se stessi, le proprie tendenze e il proprio spirito. E poi il Latino e il Greco. Quali valori spirituali si conquistano con queste discilpine? Innanzitutto la capacità di una ricostruzione organica umanistico-scientifica di un determinato periodo storico, della sua base economica, della sua organizzazione politica ed infine della corrispondente realizzazione letteraria. Con questo metodo si può studiare senza alcuna differenza la polis greca o il formarsi dell’impero romano o qualunque altro fatto storico. E’ facile obiettare che questi risultati comportano una preparazione storica che a sua volta presuppone una valida preparazione grammaticale e linguistica. E proprio questo è il nodo dal cui mancato scioglimento dipende il decesso della scuola italiana. La preparazione storica dei nostri allievi, che si deve conseguire nel triennio finale della scuola superiore, è compromessa per il fatto che il quinquennio della scuola media inferiore e delle classi di collegamento non assicura affatto una buona preparazione grammaticale e linguistica. Tutti oggi lamentano nella maggioranza dei nostri giovani l’incapacità di far convergere in un solo centro spirituale i vari impulsi delle proprie facoltà psichiche e la carenza di equilibrio interiore, in conseguenza dell’incapacità di individuare le gerarchie spirituali. Ciò accade perché i giovani non giungono al triennio terminale degli studi superiori temprati allo studio ed alla fatica e predisposti a sentire il fervore della vita intellettuale. Essi non considerano il Liceo come il luogo in cui, liberi ed indipendenti, possano esplicare la propria personalità e meditare seriamente sui problemi umani.
Temprato in questo modo, invece, è giunto alle soglie del Liceo il giovane di cinquant’anni fa, reso più assennato e più equilibrato dalla scuola. E noi siamo convinti che un contributo prezioso alla conquista di tale equilibrio, inteso come capacità di riflessione, di concentrazione e di controllo, è venuto proprio dall’assiduo studio della grammatica e della lingua. Oggi i giovani, e non solo essi, ma anche imprudentemente molti docenti, muovono alla grammatica l’accusa di astrattezza e di aridità. Certo la grammatica può essere astratta ed arida, cioè cattiva, se viene presentata come immutabile, ma diventa mezzo necessario allo sviluppo del pensiero se è presentata nel suo farsi, come storia. Le regole grammaticali non devono essere trasmesse con asfissiante pedagogismo e pedanteria e giustificazione catechistica, ma devono scaturire dall’attrito del pensiero in moto, dalla simpatia e dal tipico riconoscimento dell’organismo linguistico. Scriveva A. Panzini: “Il soggetto ed il verbo bastano a formare la proposizione, Io vivo; come per fare una lampada basta olio e stoppino”. E ancora: “Sintassi è un’antica parola greca che vuol dire semplicemente ordine. Senza coordinamento non si fa nulla o si fa tutto male. Se per esempio, in una casa il pane si trovasse sotto il guanciale; lo zucchero nella saliera; l’olio sparso sui mobili; le pentole appese all’attaccapanni; le galline invece che nella stia, nel salotto; i libri nella tinaia ecc. ecc., sarebbe un affare grave…! Diciamo questo affinché il giovane si persuada che la sintassi, cioè l’ordine delle parole, non è stata un’invenzione dei grammatici, ma esisteva anche prima della grammatica”[1].
Il “conveniens” ciceroniano
In quest’aura di nitore infantile creato dalla prosa panziniana i giovani di cinquant’anni fa hanno perduto la presunzione della facile regola che accomoda tutto e hanno appreso la faticosa scienza del giusto, quello che Cicerone chiama il conveniens, che aiuta e rende solerte, coraggiosa ed equilibrata l’intelligenza. E quello che si è fatto cinquant’anni fa si può tornare a rifarlo ora senza scandalo per nessuno, a patto che si capisca una cosa: che la scuola non deve essere mai un fatto passivo, ma un processo attivo sempre. La scuola non deve insegnare, perché se la scuola insegna, c’è chi patisce l’insegnamento. A scuola ci deve essere soltanto l’imparare tra il docente e l’allievo.
E su un altro fatto ha meditato durante i colloqui di luglio il Commissario.
Il rapporto delle famiglie dei candidati con la scuola è stato caratterizzato da un’estrema indifferenza. Può darsi che tale comportamento sia stato dettato da una nuova morale familiare che assegna a ciascun componente della famiglia il dovere di condurre a compimento i propri impegni contando esclusivamente sulla propria iniziativa e capacità. Ed indubbiamente ciò è segno di civiltà. Eppure da anni lontani permane ancora viva in noi l’immagine paterna, dapprima pensierosa e taciturna, e poi serena e gioviale, in attesa del figlio, nell’atrio e nei corridoi del vecchio Liceo, durante e dopo gli esami di maturità. Bisogna dirlo. Il padre ha sempre rappresentato per il giovane di allora un punto fermo di riferimento, un essere diverso nel quale specchiarsi e giudicarsi, un esempio del mondo del dover essere. Quell’incontro col padre, in occasione del primo impegno serio a cui la vita ci ha chiamati, è stato allora per noi il ritrovamento della verità nativa del nostro essere, la comprensione totale delle ragioni della nostra esistenza. In quell’incontro abbiamo avvertito mille cose non dette, il richiamo della coscienza, l’ammonimento per il futuro e l’espressione di un amore senza confini, ed abbiamo sentito, come in antico, l’affidamento di padre in figlio del culto del bene.
Lasciamo la deprecatio temporum ai moralisti di professione, alle anime belle nelle quali si celano gli strali della reazione. Per noi è sufficiente avere avvertito e segnalato il problema, convinti come siamo che anche ai giovani di oggi non bisogna negare la memoria e la scintilla di un contatto destinato a permanere a dispetto del tempo ed a riscuotere ed a riaccendere un giorno, per un rapporto stabilitosi d’improvviso o per una emozione più fonda, di colpo, il passato.
La Chiesa lo Stato e l’insegnamento religioso nella scuola
Il cristianesimo dopo Costantino è stato l’ideologia esteriore del gruppo dominante, tanto che la sua fortuna e la sua diffusione non possono essere distinte dalla storia di una gran parte dell’umanità negli ultimi due millenni. Diventa perciò inevitabile analizzare il rapporto tra religione e politica.
Per la Chiesa cattolica è importante la conservazione dell’unità dottrinale di tutta la massa religiosa, in cui consiste la sua forza, anche se la coesione della Chiesa è molto minore di quanto si pensi, non solo per la crescente indifferenza dei fedeli per le questioni puramente religiose, ma anche perché il centro ecclesiastico è impotente dinanzi alle forze centrifughe organizzate che lottano coscientemente nel seno della Chiesa. Si pensi, ad esempio, alla dottrina della liberazione nell’America latina.
Cattolicesimo e Concordato
Noi crediamo che l’uomo sia il risultato del processo dei suoi atti, della sua volontà e concreta attività. Sarebbe fin troppo facile dimostrare che un cattolico integrale che applicasse in ogni atto della sua vita le norme cattoliche, sarebbe un monstrum. Si pensi ai cattolici integrali dell’Action Francaise, che per rimettere in onore la Sillabo di Pio IX hanno richiesto un ecclesiastico per l’insegnamento di quel corpo di dottrina nelle loro scuole. Essi con Maurras hanno distinto il cristianesimo dal cattolicesimo, esaltando in quest’ultimo la reazione al veleno giudaico del cristianesimo primitivo ed autentico che la Chiesa ha domato col suo culto, con le sue devozioni superstiziose, son i suoi riti e pompe. Ciò tuttavia non ha impedito alle masse nazionali francesi formalmente cattoliche e legate in modo piuttosto aleatorio all’Action Francaise, di aderire ai partiti repubblicani di centro, sebbene questi partiti in Francia siano stati anticlericali e laicisti. Il sentimento nazionale in Francia, il senso della patria è stato ed è più forte del sentimento religioso cattolico, il quale del resto ha presso quel popolo caratteristiche proprie. In Francia la formula secondo la quale la religione è una questione privata si è radicata nella mentalità collettiva, come anche il concetto della separazione della Chiesa dallo Stato, anche grazie agli intellettuali che si aggregano intorno ai centri di cultura (Istituto di Francia, Università, grandi giornali e riviste).
In Italia il cattolicesimo concepisce l’uomo come individuo limitato e causa del suo stesso male, e ciò dà origine ad una mentalità collettiva che presuppone nell’individuo una condizione di colpa che a sua volta determina la necessità dell’espiazione. Occorrerebbe, invece, riformare il concetto dell’uomo medesimo, fondandolo sull’intimità profonda di ciascuno, una intimità che emerge dal sociale, il singolo dal collettivo, la parola isolata da quella di tutti.
La religione cattolica è in realtà una molteplicità di religioni distinte e spesso contraddittorie: c’è un cattolicesimo dei contadini, uno dei piccolo-borghesi e degli operai di città, un cattolicesimo delle donne ed uno sconnesso e variegato degli intellettuali.
Non deve perciò far meraviglia se con il D. L. 17 marzo 1918, n. 396 e 9 maggio 1918, n. 695, abbandonando dopo 63 anni il principio cavouriano che era posto a base della legge sarda 29 maggio 1855, nel 1918 lo Stato italiano ha ripreso a finanziare il culto cattolico, contro ogni principio di modernità. La potenza dell’organizzazione mondiale dei cattolici ha finito con l’imporsi in Italia come una prova di verità anche in conseguenza del fatto che lo Stato italiano, dapprima col moderatismo dei governo prefascisti, poi col fascismo ed infine durante il regime repubblicano con il partito della Democrazia cristiana, ha rinunziato ad essere centro permanente attivo di una cultura propria ed autonoma, sicché la Chiesa non ha avuto oppositori nel dominio spirituale delle moltitudini. Il Concordato del 1929 è la prima tappa della capitolazione dello Stato italiano. Il Concordato non è stato un comune trattato internazionale, poiché vi si è realizzata un’interferenza di sovranità in un solo territorio statale; difatti, tutti gli articoli di cui è stato composto si riferiscono ai cittadini di uno solo dei due Stati contraenti (lo Stato Italiano), sui quali il potere sovrano di uno Stato estero (lo Stato di Città del Vaticano) ha rivendicato diritti e poteri di una speciale determinata giurisdizione. Non si può quindi negare che il Concordato ha intaccato in modo essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno, anche se questo ha assunto come contropartita l’impegno da parte della Chiesa di promuovere il consenso dei governati verso una determinata forma di governo. Ma non si può dimenticare che tutto ciò è avvenuto nel territorio dello Stato italiano ed ha riguardato i suoi cittadini, il cui consenso la classe dirigente fascista non è stata in grado di assicurarsi senza scendere a patti con le gerarchie ecclesiastiche. Proprio in questo consiste la capitolazione dello Stato che ha sancito il riconoscimento pubblico di determinati privilegi politici di una casta di cittadini italiani.
Uno strumento fondamentale nell’applicazione del Concordato è stata la riforma gentiliana della scuola, anche se, per certi aspetti, lo spirito del Concordato medesimo ha finito con l’entrare in conflitto con alcuni postulati filosofici e politici della dottrina idealistica. Difatti, nell’intenzione filosofica dei programmi della scuola elementare, le parole “l’insegnamento della religione è considerato come fondamento e coronamento di tutta l’istruzione primaria”, hanno assegnato alla religione un ruolo inferiore (philosophia inferior), anche se necessario alla formazione del fanciullo. Attraverso la religione così considerata deve infatti passare l’educazione del bambino della scuola elementare. Si rammenti che, secondo Gentile, la religione è una filosofia mitologica ed inferiore, corrispondente alla mentalità infantile ancora incapace di levarsi alla filosofia pura nella quale poi la religione deve essere risolta ed assorbita.
Pluralismo di culture religiose
Tuttavia l’insegnamento religioso nella scuola elementare, o per disimpegno o per calcolo o per carenza di preparazione, o per tutti e tre insieme questi fattori, non è stato per nulla mitologico, perché la Chiesa attraverso i programmi, i testi e gli insegnanti, lo ha esternamente vigilato e diretto, cosicché esso è rimasto intrinsecamente dottrinario e dogmatico. Quando poi l’insegnamento della religione è stato esteso alle scuole medie inferiori e superiori, sono stati strozzati i postulati della concezione idealistica, la quale pretendeva di escludere la religione da quegli ordini scolastici, per lasciarvi dominare la filosofia, destinata a superare e riassorbire in sè la religione appresa nelle scuole elementari. A partire da questi presupposti teorici e storici, noi possiamo renderci conto di quanto sia stata importante la revisione cui, con il Concordato del 1929, è stato sottoposto il rapporto tra stato e Chiesa, specialmente per ciò che concerne la religione nelle scuole di ogni ordine e grado.
Lo Stato italiano ha aperto la scuola pubblica alla presenza pluralistica delle confessioni religiose esistenti nel Paese. Ciascun ragazzo o, secondo l’età, la sua famiglia, può scegliere di seguire l’insegnamento cattolico per l’art. 9 del Concordato; può chiedere che siano chiamati nella scuola rappresentanti del culto valdese in virtù dell’art. 10 della relativa Intesa, per studiare con essi il “fatto religioso”; può chiedere di seguire un insegnamento ebraico, secondo quanto si sta concordando nelle trattative per l’Intesa con l’Unione delle Comunità israelitiche; o, naturalmente, potrà decidere di non seguire alcun tipo di corso confessionale.
Ma intanto da parte della Chiesa sono stati fatti dei tentativi per annullare importanti novità concordatarie. Ha cominciato Comunione e Liberazione col chiedere che le classi di alunni vengano formate nella scuola pubblica sulla base della scelta dei singoli di seguire o meno, l’insegnamento religioso. Come a dire: i cattolici da una parte e i laici dall’altra, quasi una sciagurata forma di divisione dei cittadini e delle nuove generazioni. Con un’altra iniziativa restauratrice si è cercato di reintrodurre la vecchia prassi dell’esonero, proponendo che la scelta operata dai giovani all’inizio di un ciclo scolastico sia automaticamente valida per tutti gli anni successivi previsti al momento dell’iscrizione. Cioè a dire: il diritto di libera scelta ed uguale scelta opererebbe solo tre volte nell’intero ciclo scolastico che va dalle elementari alle secondarie superiori.
Ma al di là dei contenuti, che esamineremo, c’è la questione dei modi in cui si è realizzata l’Intesa.
Mentre la Conferenza episcopale si è riunita a Roma il 23 e 24 ottobre 1985 per esaminare i contenuti del documento e per fornire una sua valutazione di merito, il Ministro della Pubblica Istruzione si è presentato alle commissioni l’11 e il 12 dicembre 1984 ed ha riferito solo generiche formulazioni, ha rifiutato il dibattito in aula e con una speditezza degna di miglior causa e mai riscontrata nel passato, ha ottenuto il consenso del Consiglio dei ministri, giungendo così in tempo di record alla firma con il cardinale Poletti. Al Parlamento si è in questo modo impedito di esprimere il proprio parere sulla collocazione del quadro orario che viene effettuata dal capo d’istituto solo sulla base delle proposte del collegio dei docenti, giacché nell’Intesa non si fa cenno ai criteri che l’art. 6 del D. P. R. 416/74 affida al Consiglio di Istituto, l’unico organismo che dovrebbe essere competente per quanti riguarda gli alunni che non frequentano l’insegnamento religioso. Inoltre, nelle scuole elementari e materne l’insegnamento religioso dovrebbe essere impartito nell’arco della settimana per due ore complessivamente, e mai avverbio è stato così complesso ed orazianamente ambiguo, dal momento che può anche significare che è possibile articolare l’attività didattica della religione in quattro mezze ore o in frazioni di tempo più ridotte, sì da farla svolgere quasi ogni giorno. Infine, agli studenti che scelgono di avvalersi dell’insegnamento religioso viene concessa la presenza dell’insegnante di religione nei consigli di classe e di interclasse ai fini della valutazione periodica e finale, e questo ci pare un fattore gravissimo di discriminazione.
L’insegnamento religioso nelle scuole
In Italia l’insegnamento religioso è obbligatorio dal 1923 nella scuola elementare e dal 1929 in tutte le scuole. Quando la coscienza laica ha trovato una maggiore diffusione nelle file dei cattolici, specialmente per effetto dei Concilio e dei mutamenti culturali verificatisi nella nostra società durante gli anni Sessanta, il principio dell’insegnamento religioso nelle scuole è stato rimesso in discussione e si è svolto in quegli anni un intenso dibattito. La maggioranza dei laici allora non ha preso posizione contro l’insegnamento confessionale, cattolico e no, e per rispetto delle aspirazioni e delle richieste del mondo cattolico esso è stato lasciato alla diretta iniziativa delle organizzazioni religiose ed è stato riservato agli alunni che lo hanno richiesto o per i quali lo hanno richiesto le famiglie. E’ il principio accolto nel Concordato e richiamato nell’Intesa fra la CEI (Commissione episcopale italiana) ed il ministero della Publica Istruzione. In altre parole, i laici hanno dimostrato il loro rispetto per la religione e le istituzioni confessionali, cattoliche e no, tutte uguali davanti alla legge e alla coscienza civile dell’individuo. Si ha perciò il diritto di pretendere che l’interlocutore di qualunque religione sia disposto a tener conto dei diritti altrui e si dimostri laico nei suoi atteggiamenti e nelle azioni verso lo Stato e verso quei cittadini che non accettano le direttive della Chiesa. Il rispetto deve essere reciproco, perché diritti e doveri stanno dalle due parti. Ma è così, se il cardinale Siri ha inviato una lettera a tutti i direttori didattici e, si suppone, ai presidi di Genova prim’ancora della firma dell’accordo, per rammentare a quei dipendenti dello Stato, e non della Curia, a che cosa devono provvedere: informare le famiglie, collaborare con le autorità ecclesistiche “perché la scelta delle famiglie e dei giovani avvenga in piena libertà e costituisca di fatto un momento di autentica vita ecclesiale”?
C’è o non c’è la volontà di predisporre le condizioni spirituali per una opzione a senso unico, se nella scheda che ora sostituisce la pagella nella scuola media inferiore il primo elemento di valutazione di un allievo continua ad essere il suo interesse e la sua partecipazione all’insegnamento della religione, sovraordinato all’interesse e partecipazione per l’Italiano, per la Storia e l’Educazione civica e le Scienze, ecc.?
La verità è che la Chiesa tenta oggi di gettare le basi della sua riconquista sul terreno concreto di due istituzioni: la famiglia e la scuola. La famiglia difatti non è intesa tanto come istituzione civile, quanto piuttosto come istituto religioso, centro e strumento di evangelizzazione da cui s’irradia un’azione educativa, di cui la scuola dovrebbe essere un’efficace proiezione e prolungamento. Ne deriva una concezione della scuola pubblica che necessariamente non s’identifica con la scuola di Stato, se non nella misura in cui si fa sussidiaria e supplente dell’azione nei confronti dei suoi cittadini, diritto che finisce con l’essere assorbito tutto intero dalla famiglia[2]. All’avvilimento della scuola pubblica si è giunti per lo stato di smarrimento in cui si trova la cultura laica italiana e per la sua carenza di elaborazione culturale di fronte alla nuova fase che sta vivendo la Chiesa. La cultura laica difatti sembra privata di una identità collettiva da proporre alla società, e resta immobile di fronte alla Chiesa che invece sta trovando le coordinate necessarie per affronatare la crisi che caratterizza lo storico passaggio dalla separazione alla collaborazione tra Stato e Chiesa, passaggio di cui il segnale più vistoso è proprio il processo di revisione del Concordato. Il rischio più grave è che la crisi della cultura laica trascini con sé la crisi del fenomeno più importante che la società moderna ha prodotto: la secolarizzazione della società civile, dello Stato e della relativa cultura! Perciò noi crediamo che la scuola, cioè l’istituzione non surrogabile da nessun altro strumento di informazione-formazione, neppure dai più sofisticati mass-media, abbia un grande ruolo da svolgere nella società contemporanea, specialmente in questo momento e proprio attraverso l’insegnamento religioso. Occorre che l’insegnamento religioso medesimo non sia destinato a legittimare e rafforzare dall’alto un’area cattolico-spiritualistica a vocazione egemonica. A questo fine l’insegnamento religioso deve avere un impianto storico, l’unico che permetta all’allievo di non scambiare il processo del pensiero religioso come prodotto di partenogenesi delle idee o come una condizione assoluta di conoscibilità delle cose. L’impianto storico, come strumento di una formazione storico-critica e pluralistica, è l’unico che possa garantire effettivamente il pluralismo culturale e quindi la libertà d’insegnamento, e può evitare di compromettere il contenuto pubblico della scuola statale. Diversamente, rinascono inevitabili le deformazioni ideologiche e le proposte speculative assolutizzate, e il dialogo Chiesa-Stato rischia di essere compromesso.
Insomma, anche per la religione la scuola deve saper trovare forme di espressione che sappiano accogliere la vita e l’essere degli individui con minore rigidezza della ragione scientifica, e di quella filosofico-sistematica o peggio di quella dogmatica, in una pratica antiautoritaria d’insegnamento in cui vi sia il senso di ogni individuo, e specialmente di ogni giovane, come energia positiva, come diritto ad essere se stesso, come diritto alla libertà.
Pensieri stravaganti sulla scuola
Negli anni del secondo dopoguerra, quando il sapere assoluto d’origine hegeliana si frantuma, dando origine ai particolarismi ideologici (neotomismo, spiritualismo, esistenzialismo, problematicismo, pragmatismo, materialismo storico e neopositivismo), la scuola avrebbe dovuto avere un ruolo primario, al di là della magistratura e dell’ordine pubblico, se avessimo avuto una classe dirigente all’altezza intellettuale di un compito di così immani confini. Era necessaria una classe dirigente di politici colti e non di politici atteggiantisi a filosofi; ed invece abbiamo avuto troppo intellettuali falliti come politici, e troppi politici falliti come intellettuali. Occorreva una nuova sintesi, visto che né il cattolicesimo né il liberalismo né il socialismo avevano superato la prova storica. In agguato stavano influssi molteplici e corrosivi, pronti a spinatare la vita del pensiero dal suo primato intellettuale. Prendeva corpo così la disputa se avviare una istruzione pubblica paritaria ovvero abbracciare la meritocrazia. In ogni egualitarismo malinteso una selezione qualitativa diviene una repressione classista, ma nella meritocrazia c’è l’insidia dell’errore didattico di separare i più dotati dal resto della società. Nella realtà quindi appariva necessaria la sintesi dell’uomo politico colto, che di fatto è mancata.
Intanto aveva fatto il suo ingresso nella scuola il populismo educativo fra il clamore dei tromboni conclamanti la centralità della formazione dell’individuo. Esplodeva negli anni Sessanta per quantità e qualità la vecchia scuola superiore, e la sua crisi, nonostante interventi parziali e sperimentazioni e corsi di aggiornamento, nonché fermarsi, si estese; le conseguenze del suo peggioramneto salirono ad investire l’università, e così si allentò l’antico rigore e si precipitò sulla via del cedimento assoluto attraverso la riforme dell’esame di maturità, dapprima provvisoria, ma oggi (1997) ancora in vigore, per finire con l’abolizione degli esami di riparazione ed il fallimento dei corsi di recupero. E’ salito in alto il lassismo, perché troppo in basso è scesa la risposta politica.
A chi addebbitare un risultato così profondamente mostruoso, inspiegabilmente sfuggito a tutti (per miopia, per imprevidenza, per felpato e peloso cinismo)?
In realtà l’intera collettività nazionale non ha voluto capire che non si può confondere l’eguaglianza delle opportunità, dovuta a tutti i cittadini di un paese democratico, con un formalistico egualitarismo dei risultati, e non ci si è accorti, invero, che altro non si è fatto se non spostare la selezione fuori dalla scuola, nel mercato del lavoro, rafforzando privilegi familiari e rendite di posizione. E bene ha scritto a questo proposito Claudia Mancina: “Una scuola efficiente, invece, avrebbe precisamente il compito di selezionare anche coloro che non sono figli delle classi dominanti e quindi colte. Una scuola efficiente assolve il suo ruolo di formazione della cittadinanza se riesce a scompaginare almeno un po’ la distribuzione sociale dei titoli di studio rispetto alla provenienza familiare”. E’ questa una proposta razionale più di quanto si pensi, perché essa è la sola idonea a verificare che l’alternativa cruciale per la scuola, e quindi per la società, non è tra selezione delle élites e democrazia egualitaria, bensì l’altra alternativa, quella vera, che opera nella realtà, condizionando la vita di tanti giovani, tra una formazione efficace dell’individuo e una formazione inefficace.
E che dire del fatto che si è tollerato – senza alcun segno di protesta o di reazione visibile – un capolavoro di imprevidenza sociale, costituito dalla questione della scuola privata, con la maggioranza dei cittadini indotti a finanziare la scuola della loro minoranza più agiata?
Paralleleamente la causa di un così grave degrado la si può trovare non soltanto in un errore di dottrina, ma anche nell’esercizio inconsulto della didattica.
Se la centralità della formazione dell’individuo è fondata sui processi di maturazione linguistica, la pedagogia linguistica tradizionale, subito dopo l’Unità d’Italia, aveva fissato quattro punti di metodo, consistenti nell’utilità d’insegnare analisi grammaticale, analisi logica, paradigmi grammaticali e regole sintattiche. La pedagogia moderna ha smontato questi quattro punti col pretesto che essi rappresentino elementi di una pedagogia fondata sull’imitazione, cioè sull’addestramento all’imitazione di modelli dati nel passato che privilegiavano l’uso della lingua scritta rispetto al parlato. Si è creduto di risolvere il problema sociale della lingua, consentendo, di parlare, come si dice a Roma “come mamma ci ha fatti”, e si è stigmatizzata la pedagogia linguistica tradizionale come un virus che uccide senza rimedio la capacità di parlare liberamente. E così nella scuola si è inaridito il ruolo settoriale dell’ora di Italiano, che, pur nella sua specificità, ha sempre coinvolto, al fine dello sviluppo delle capacità linguistiche, non una ma tutte le materie, liberando così l’accesso al dominio degli strumenti di cultura e all’intervento critico sulla realtà per tutti gli allievi, quale che sia la loro classe e regione di provenienza.
La parola elaborata come linguaggio di ragione per modellare le forme del pensiero: questo è l’inestimabile dono della pedagogia linguistica tradizionale, dove la vecchia grammatica, semplice, limpida e senza artifici, stava alla logica come il vestito sta al corpo. Così noi abbiamo appreso che il pensiero esprime interamente un giudizio, e che senza l’uso di un verbo il pensiero non si muove. Spesso una parola designa predicato e copula: “Caio invecchia” = “Caio è vecchio”; e talora una sola parola designa soggetto, predicato e complemento: “concurritur = “gli eserciti vennero alle mani”. E così l’intelletto concepisce ed intende e, quando si aggiunga la virtù imitativa della memoria, esso diviene anche capace di azione, che consiste nella costante operazione della mente, per cui il contadino innesta la nuova gemma, l’artigiano modella il ferro o intaglia il legno, ed il giurista, il letterato ed il medico spezzano il pane della loro scienza portando con intelletto puro e pregno di ragione la civiltà ad un grado supremo di umanità.
Chi invece volge il pensiero ai nostri giorni ode riboboli affannosi, ascolta errori grossolani e spropositi e strafalcioni di persone che, pur nel loro intasamento mentale e nella loro astenia intellettuale, sgomitano per avere un ruolo nella vita pubblica[4]. Ed intanto un simulacro di politica scolastica mantiene ad un livello quanto più possibile basso il regime culturale di massa, ingannando la collettività mediante l’innalzamento del principio di pensare per valori, col quale in realtà si svalutano altri valori un tempo considerati supremi.
E la macchina del tempo ci porta indietro, fuori dall’aula di concorso bandito a Torino dalle Province sarde, dopo l’esame di maturità. Due giovani si incontrano al termine della prova di traduzione del brano in latino, volto da entrambi anche in greco, si salutano e si chiamano Natalino Sapegno e Piero Gobetti; e prima di essi avevano superato quell’esame Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, e sotto i portici del cortile dell’Università torinese e nelle altre città e luoghi di studio, o nelle nebbie d’inverno o al sole di aprile e di maggio o nella canicola dei giorni d’esame, la gioventù studiosa discorreva di Croce e Gentile, di Gentile e Croce con vivo fervore; e nella scuola si istituiva tra docente ed allievo un reciproco suggestivo rapporto, e la lezione poteva non avere uno schema preordinato, ma essere libera ed estrosa e nascere felicemente dall’animo ricco e sensibile del docente, oppure poteva essere regolare come una macchina, esatta come un orologio, precostituita come un rito. In ogni caso di concreto e di vivo c’era l’umanità del docente che scendeva fino a noi per farci salire sino a lui, maestro di vita civile.
Oggi la scuola, cioè il problema più insidioso da cui dipende la rinascita o la dissoluzione dello Stato italiano, è di fronte ad un bivio, ed ai docenti, e soltanto ai docenti spetta una scelta per una via di salvezza o di rovina, a seconda che essi lavoreranno con onestà per affermare la verità oppure in modo disonesto per affermare un mondo di valori menzognero. Ma forse dietro gli e gli altri si nasconde una nuovo demiurgo per una nuova sintesi.
*Sulla questione del latino vogliamo ricordare due nostri interventi: il primo, dal titolo Una proposta paradossale ma non tanto, (relazione di minoranza presentata al Convegno di Lecce su “Scuola e dialetto” svoltosi dal 20 al 26 ottobre 1975), in “Il Corriere di Galatina”, Anno II – n. 15 20 dicembre 1975, nel quale provocatoriamente in una discussione sul rapporto scuola-dialetto veniva riaffermato il ruolo del latino avvilito nella coeva didattica; e il secondo intervento, dal titolo Il latino nei Licei Scientifici. Un importante problema scolastico, in “Il Corriere nuovo”, 22 dicembre 1979, p. 5, nel quale si rispondeva con analoghe argomentazioni ad un’inchiesta del Ministero della Pubblica istruzione in cui si era rilevato con qualche ritardo lo scadimento dell’insegnamento del Latino nei Licei Scientifici.
[- No alla scuola di ieri per l’uomo di oggi, in “Il Corriere di Galatina”, Anno I, n. 11, Galatina, 12 ottobre 1974, pp. 3 e 4.
– Il ruolo del latino, in “Il Corriere di Galatina”, anno II, n. 4, 17 marzo 1975, pp. 3 e 4.
– Meditazioni di un commissario (Maturità classica 1975-76), in “Il Corriere di Galatina”, Anno III n. 9, 22 ottobre 1976, pp. 5 e 6.
– La scuola e lo stato e l’insegnamento religioso, in “Il Corriere nuovo”, Anno IX, n. 1, Galatina, 26 gennaio 1986, p. 3.
– Pensieri stravaganti sulla scuola, in “la Città”, aprile 1996, p. 5.]
Note
[1] A. Panzini, Semplici nozioni di grammatica italiana, Trevisini, Milano 1914, passim.
[2]Sull’argomento della scuola di Stato si veda il nostro articolo La scuola misconosce il valore della laicità, in “Quotidiano di Lecce”, di sabato 30 settembre 1989, p. 9, dove si ribadisce con forza che “Solo la scuola di Stato, e di uno Stato democratico e laico, rispettoso del sentimento religioso ma estraneo ad ogni confessione, garantisce col suo naturale pluralismo ad ogni allievo la possibilità di essere informato su tutte le fedi e su tutte le ideologie, al fine di poter fare razionalmente la propria scelta, mentre ogni scuola privata, sia in nome di una confessione religiosa o di un partito politico o di una lobby economica, è soltanto illiberale e totalitaria”.
[4] Ci permettiamo di rimandare il lettore, a questo proposito e per una significativa esemplificazione, al nostro articolo dal titolo Smagliature di classe. Il latino del Manzoni e il latinorum dei nostri uomini politici, in “Quotidiano di Lecce” di Sabato 2 settembre 1989, p. 10.