Quei quindici endecasillabi sciolti rappresentano una condizione di congiungimento dell’umano con il sovrumano, del transeunte con l’eterno. Sono l’espressione della finitudine che cerca una consolazione nell’idea o nella suggestione di un infinito, oppure nella sua figurazione, nella sua trasfigurazione, nella sovrapposizione di desiderio e di spaurimento.
Sono una sperimentazione dell’incognita e dell’immenso, un confronto con la dimensione dell’arcano, con quella della solitudine, con l’ansia di sconfinamento.
Il 23 luglio del 1820, nello “Zibaldone” Giacomo diceva di “una tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo”.
Poi puntualizzava: “ Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni”.
Ciascuno di noi ha il proprio Infinito dentro, un proprio concetto o sentimento della siepe, dell’ultimo orizzonte, dell’immensità in cui il pensiero potrebbe o vorrebbe sperdersi, annegare. Ciascuno ha una propria, unica, imparagonabile, assoluta concezione della condizione del naufragio e del mare in cui si naufraga, e della dolcezza che talvolta anche il naufragio fa assaporare.
Ciascuno di noi ha il proprio Infinito dentro e una siepe nel pensiero che impedisce allo sguardo dell’intelligenza di raggiungere un orizzonte di sapere. La siepe è il nostro limite di cognizione, la delimitazione del territorio della nostra esperienza di conoscenza che comincia e si conclude nel perimetro angusto di un’esistenza, nella costante mortificazione delle sensazioni e nella umiliazione della ragione, nella spaventosa constatazione che l’incomprensibile resiste alla potenza di qualsiasi scienza, che l’indicibile resta qual è nonostante ogni assalto di metafora.
Ma Giacomo ci dice che una possibilità ci può essere. Una sola possibilità: straordinaria. Una immaginazione, una finzione per andare oltre la siepe, per osare il pensiero dell’impensato.
Ci sono cose che la tecnologia non ci può dare. L’Infinito che si manifesta nella luce di una tela di Caravaggio o nei colori della notte stellata di Van Gogh non ce lo può dare. Quell’Infinito è una condizione che appartiene all’arte custodita dalle mani, alla felicità e alla sofferenza del pensiero, al trasalimento, all’insonnia, all’emozione, alla genialità, alla disperazione, al sentimento, all’intuizione, alla ragione. Al brivido improvviso di un’idea. All’esperienza di esistere. Al destino dell’ umano troppo umano.
La tecnologia non potrà mai concepire la musica di Mozart, un saggio di Montaigne, un racconto di Borges, la Divina Commedia, la Cappella Sistina, quello che appartiene alla bellezza, alla meraviglia. Non lo potrà fare. Però, per prudenza, dovremmo dire: forse. Perché non si può escludere che l’evoluzione dell’intelligenza artificiale, per esempio, possa arrivare alla generazione di una bellezza che non sarà meno intensa di quella che conosciamo, che non susciterà meno meraviglia. Forse la tecnologia ha possibilità e orizzonti che non possiamo nemmeno immaginare.
Forse comporrà nuovi poemi e musiche nuove, scolpirà capolavori strabilianti. Forse un giorno riuscirà perfino a mostrarci in che modo è fatto l’Infinito.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 5 giugno 2022]