di Antonio Lucio Giannone
Devo dire che ho letto con piacere e curiosità il romanzo di Daniele Capone, I fiori di Althusser (Torino, Robin Edizioni, 2019), nonostante la sua mole, sia per via di uno stile scorrevole e piano, sia perché ho ritrovato luoghi a me ben noti, tanti personaggi che ho conosciuto e a volte frequentato in quegli anni e ho ripercorso vicende alle quali in parte ho partecipato. Anch’io, infatti, appartengo alla generazione che è la protagonista del libro, la generazione di giovani (allora) leccesi e salentini che intorno al 1968-69 conseguono la maturità e successivamente si iscrivono all’università. Perciò ho riconosciuto facilmente, ad esempio, i nomi di docenti del liceo “Palmieri” e dell’Università di Lecce anche se a volte sono leggermente camuffati (il prof. Giardina, ad esempio, è il prof. Stefano Giordano, mio docente di storia e filosofia, Colmhar è Bruno Widmar, professore di storia della filosofia contemporanea all’Università e così Pipino il Breve, che per gli studenti era il soprannome, il nomignolo di Pasquale D’Elia, temuto preside del “Palmieri”). Come pure ho riconosciuto i nomi di altri personaggi.
Ma vediamo ora come è fatto questo libro e di che cosa parla. Intanto il romanzo è diviso in ben ottantanove brevi capitoli, preceduti da un prologo e seguiti da un epilogo. Nel prologo e nell’epilogo la narrazione è condotta in prima persona e l’io narrante è uno scrittore che ha avuto abbastanza successo con le sue opere precedenti e che ai nostri giorni ritorna a Lecce, sua città d’origine, per scrivere un romanzo su Tancredi d’Altavilla, conte di Lecce. Qui ripensa agli anni della sua giovinezza che sono rievocati nelle pagine successive con una narrazione in terza persona e, in particolare, a una ragazza di cui era innamorato e della quale si mette sulle tracce. È una sorta di ricerca del tempo perduto che si snoda a partire dal primo capitolo. Non a caso proprio all’inizio viene citata la “proustiana madeleine” che “solletica la memoria involontaria e fa sgorgare il ricordo” (p. 7).