di Antonio Devicienti
Sto guardando Parigi, la città sul fiume, dall’ampio terrazzo dell’Institut du Monde Arabe. La facciata dell’edificio, bianco ricamo che ricorda le finestre di merletto di Sana’a e i manoscritti arabi medievali, s’innalza alle mie spalle in dialogo con la nave di pietra dorata ch’è Notre Dame – da questo luogo di Parigi si è infatti alle spalle dell’Église e si vede bene la Senna dividersi per abbracciare l’Île Saint Louis e l’ Île de la Cité.
Rifletto sul concetto e sull’immagine del ponte, mi dico che Parigi è la città dei ponti e mi soffermo a considerare se anche l’Institut du Monde Arabe non sia, per esempio, un ponte. Trovo il nome stesso bellissimo: Istituto del Mondo Arabo (confesso che mi piace molto di più ridirmelo in francese: Institut du Monde Arabe, perché ho l’impressione che la sillaba nasalizzata “on” dilati il suono, la cadenza finale “aràb” ne suggelli solennità e vastità) e m’affascina quel “monde arabe” che suggerisce un intero cosmo, variegato, vastissimo, ancora in gran parte sconosciuto a noi Europei, un sistema stellare dentro cui navigare e pianeti sui quali discendere in esplorazione. E nel cuore di Parigi l’Institut dialoga con l’ Église – la cultura araboislamica con l’Occidente.
Malgrado questa premessa mi torna alla mente una poesia di Cristina Alziati in cui viene ricordata la ratonnade (la mattanza dei topi) da parte della polizia contro i manifestanti algerini: «Ne riconosco i volti, furono assassinati / buttati morti o vivi nella Senna, / li chiamavano ratti, è ottobre, sono d’argento» (Adesso, vv. 16-18 in Come non piangenti, Marcos y Marcos, Milano, 2011) – eccoli i ponti di Parigi: costruiti per unire, offesi dagli stivali chiodati dei nazisti, di nuovo liberi, poi macchiati col sangue sparso da una nazione che pure nella mia mente ancora significa libertà e civiltà. Ma nuove ratonnades vengono perpetrate nell’indifferenza generale o nell’indignazione di facciata nelle acque meridionali del Mediterraneo.
Mi sarebbe piaciuto vagare per Parigi in compagnia di Leonardo Sciascia e farmi mostrare da lui i luoghi di Voltaire e di Diderot; ci saremmo seduti ad un caffè ed egli, fumando l’ennesima Benson, avrebbe citato a memoria passi di Montaigne: devo allo scrittore siciliano quest’idealizzazione della Francia illuminista e rivoluzionaria che resiste in me malgrado la consapevolezza che anche quella Nazione ha vissuto ore buie e vergognose, si tratti del regime collaborazionista di Vichy o della guerra d’Algeria; e amo una foto di Ferdinando Scianna che ritrae Sciascia alle Tuileries davanti alla statua di Voltaire.