Tradurre Kavafis, per quanto elegante e prossimo all’originale possa essere l’esito, significa appianare una lingua composita, in cui il parlato delle comunità greche di Alessandria d’Egitto e di Costantinopoli si apre alle risonanze della classicità, e nel vivo del dire quotidiano si riflettono modi della lirica greca raccolta nell’Antologia Palatina. La lingua è insomma in dialogo stretto con l’universo figurale del poeta, con il suo lontano e un po’ estenuato mondo ellenistico còlto nella più alta temperie di contaminazioni tra culture e popoli, tra grecità morente e romanità anch’essa languente per i costumi cristiani in via di diffusione. Ma è proprio su questi confini di epoche e di culture, di credenze e di lingue, che il poeta dispone i suoi personaggi: seducenti corpi di efebi, regnanti e cortigiane, prefetti e dignitari vuoti di potere, divinità confuse nel tumulto della città, patrizi bizantini in esilio. E soprattutto, profili di lontani amori giovanili: testimoni di un eros che compendiava l’ardore della vita nella bellezza di un corpo. E ancora, fragranze di giardini orientali, fumide taverne di Alessandria e di Antiochia, bordelli e palazzi sontuosi in decadenza, vite brevi e ardenti consegnate alla pietra di un epitaffio, e su tutto la risonanza di antiche narrazioni, lacerti di mitologie greche e romane, in una sorta di struggente dissipazione della storia e della memoria.
I versi sopra citati di Itaca, poesia scritta nel 1911, annunciano con nitore il tema: il viaggio per mare – e quel viaggio di ognuno che è la vita stessa – nel suo periglioso svolgersi ha per timone il proprio cuore, il proprio sentire. Il vero azzardo è l’affrontamento di sé, l’ardimento che fa dileguare come estranei al proprio sentire i fantasmi che si levano facendosi ostacolo: le minacce dei Lestrigoni, dei Ciclopi o di Posidone, quelle che Ulisse ha affrontato, si fanno realtà solo se sono prima alimentate dentro di sé. Gli ostacoli scompaiono se ci si affida al viaggio vivendo il suo dischiudersi come un dono. Con la leggerezza di chi non si lascia soggiogare dall’incombenza ossessiva dell’ultimo approdo. Vengono in mente, quasi in controcanto, i versi del Voyage di Baudelaire:
Mais les vrais voyageurs sont-ceux-là seuls qui partent
Pour partir; coeurs légers, semblables aux ballons,
De leur fatalité jamais ils ne s’écartent,
Et, sans savoir pourquoi, disent toujours. Allons!
Ma i veri viaggiatori partono per partire:
cuori leggeri, come palloni in alto vanno,
il loro corso mai vorrebbero smarrire,
dicono sempre “andiamo”, ed il perché non sanno.
Itaca di Kavafis si apre con una considerazione per immagini che, con variazioni e riprese, trascorre nel resto della poesia: il viaggio sia per te non un’occasione ombreggiata dal dovere e dall’ansia dell’ultimo approdo, ma un’esperienza vissuta per la tumultuante e inattesa e festosa offerta che i tanti approdi ti riservano. Entrare in porti sconosciuti, frequentare mercati ed empori di pietre dure e di aromi, imparare dai sapienti che si incontrano in ogni approdo, fare del frattempo un nuovo sorprendente tempo, insomma allontanare Itaca, tenendola però sempre a mente, è questo il cammino che chiamiamo vita:
Itaca tieni sempre nella
mente.
La tua sorte ti segna a quell’approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio
tu finalmente attracchi all’isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.
Una lettura del mito di Ulisse che, non distogliendo lo sguardo dall’ombra di Itaca riflessa nelle onde, accoglie con saggezza lo svolgersi del tempo che è navigazione, avventura, incontro, sequenza di approdi e partenze, anzi di quel tempo sospeso tra un prima e un dopo fa il ritmo del proprio vivere. Il filosofo Jankélévitch, nel suo saggio L’irréversible et la nostalgie, legge il viaggio di Ulisse come una ricerca dell’avventura in sé, una pura fascinazione per l’avventura, per i nuovi misteriosi approdi, per gli inattesi incontri: la navigazione consiste, allora, nell’allontanare il più possibile il compito del ritorno a Itaca. Del resto, su questo dispiegarsi dell’azzardo, su questo ardimento che sospinge verso l’estremo, e si fa affrontamento dell’oltre e dell’ignoto, si fondava la variante del mito di Ulisse accolta nei bellissimi versi dell’Inferno di Dante. Ma ecco ancora Kavafis:
Itaca t’ha donato il bel
viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
L’orizzonte non occlude il paesaggio della vita, ma lo dischiude, lo mostra nella luce dei suoi particolari, nel richiamo forte delle sue occasioni. Itaca è l’ultimo approdo – figura oltre la quale c’è il nulla – ma proprio da quella linea ultima e ignota piove la luce che illumina i sentieri dell’esistenza. Il sapere della morte è quel dono che libera il piacere dell’essere in viaggio, dell’essere in una peregrinazione che è l’essenza stessa del vivere. Un’altra voce, da un’altra lingua – Antonio Machado, nel 1912, soltanto un anno dopo la scrittura della poesia di Kavafis – consegnerà ad altri versi uno sguardo analogo sul cammino che è la vita:
Caminante, son tus huellas
el camino, y nada mas;
caminante, no hay camino,
se hace camino al andar.
Viandante, sono le tue impronte
il cammino, e niente più,
viandante, non c’è cammino,
il cammino si fa andando.
[“Doppio Zero” del 24 maggio 2022]