Σὰ βγεῖς στὸν πηγαιμὸ γιὰ τὴν Ἰθάκη
di Antonio Prete
È il primo verso di una delle più note poesie di Costantino Kavafis (qui la riporto nella traduzione classica di Filippo Maria Pontani). Un verso allocutorio, rivolto al lettore: il tu della poesia è, come sempre in Kavafis, rappresentazione di un soggetto in ascolto, ma anche di un singolo lettore che comprende in sé, per così dire, l’universale umano. Ad apertura, Itaca: isola mitica dell’approdo di Ulisse, terra che è limite dell’estrema avventura, orizzonte che appare e scompare lungo l’arrischiato navigare che è la vita stessa. La pronuncia del nome di Itaca, sin dalla soglia del dire poetico, inaugura un procedimento particolare della poesia di Kavafis, per il quale l’ evocazione di figure proprie di un mondo perduto e di una grecità lontanissima e ancora eloquente si carica via via di un senso morale, si fa se non allegoria almeno segno visibile di una presenza: l’antico, la sua incantata e inattingibile e trepidante bellezza, osservato nell’incerto e ordinario tessuto di una contemporaneità priva di esemplari figurazioni. Quel che è perduto torna in un lampo che dischiude una scena allo stesso tempo venata di malinconia per la sua sparizione e visivamente molto mossa, spesso sospesa tra incantamento e amarezza. Ma ecco il primo movimento della poesia:
Se per Itaca volgi il tuo
viaggio,
fa’ voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi
o Posidone incollerito: mai
troverai tali mostri sulla via,
se resta il tuo pensiero alto, e squisita
è l’emozione che ti tocca il cuore
e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi
né Posidone asprigno incontrerai,
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.