di Antonio Devicienti
Si può partire dagli assunti che la poesia esista già di per sé e che debba essere lo sguardo a rendersi capace di vederla; ch’essa si generi dai cicli della natura, dal costituirsi e dal divenire dei diversi ambienti naturali e che la mente debba disporsi a coglierla; che la poesia scaturisca dal vivere stesso degli umani e dal loro essere comunità e che un occhio attento debba sapere aprirsi su di essa; che la poesia sorga per la presenza del desiderio o del ricordo, della nostalgia o della speranza, della tristezza o della gioia e che ci debba essere un pensiero capace di mostrarla.
L’intera opera di Franco Piavoli è questo sguardo, attentissimo e commosso, pazientissimo e capace di aver cura e di prendersi cura. È lo sguardo del silenzio mentre percorre le regioni dell’uomo, i boschi, i torrenti, le strade di antichi borghi, il ritornare delle stagioni, gli interni di abitazioni colme di ricordo e di tempo, fino a mari vasti e insidiosi, attraenti (mari dell’interiorità più abietta, ma anche più nobile).
È lo sguardo che indugia e amorevole si sofferma su volti e su profili che parlano il linguaggio denso di significato del silenzio e degli sguardi, su nuche incise di solchi per annoso lavoro e per esposizione alle luci delle stagioni del lavoro, su muri di mattoni e superfici d’acque, su crinali di colline e su profili di campanili che sembrano dialogare con cieli cangianti e trascoloranti.