D’improvviso le Langhe! E t’ho pensato.
Dure, gialle, custodi al sole, arate
da grandi ombre. Lì è nata la tua voce
il gusto dei solinghi pentimenti.
Mesi non ci parliamo, anni, ma solo
per quell’urto del sangue che ho sentito
io ti saluto. Un’ombra c’è tra noi
che giudica severa i nostri stenti.
E’ la storia di quell’amicizia (l’incontro a Regina Coeli nel novembre 1943, quando Antonicelli detenuto si trova di fronte all’amico prigioniero sotto falso nome, i giorni di vita in comune, le lezioni che Ginzburg fa in cella ai compagni di prigionia su Tolstoj e Dostojevskij e poi il 9 dicembre 1943 viene chiamato col suo vero nome, allontanato e portato in altro ramo del carcere e raccomanda all’amico i figli, e l’ultimo abbraccio e poi, dopo notizie saltuarie, quella definitiva, luttuosa, da cui, come abbiamo visto, nasce Cartolina a Pavese) resta consacrata e celebrata nello scritto dal titolo Aquilante che vorremmo vedere incluso in qualche antologia perché sia letto dalla nostra gioventù studiosa per la sua funzione altamente educativa. La reminiscenza ariostesca dell’inizio (Orlando Furioso, XX 104) dice le prerogative di raffinatissimo letterato di Antonicelli.
“Aquilante era Leone Ginzburg,
ed io ero Grifone.
Questi erano i due figli di Oliviero,
Grifone il bianco ed Aquilante il nero.
Così lui ed io, amici quasi fratelli, ci chiamavamo, con questi nomi ariosteschi, per tenere segreti i nomi veri alla polizia (dal ’34 in poi); perché egli era incredibilmente nero, di occhi, di viso, di capelli ed io ero biondo”.
E’ difficile dire della attività di letterato di Antonicelli: appunti, note di diario, saggi, discorsi sparsi in giornali come “L’Opinione”, “La Stampa”, “L’Astrolabio”, “Il Ponte”, “Il Radiocorriere”, “Nuova Società”, ed ancora piccoli poemi in prosa raccolti ora nel volume dell’ERI Il soldato di Lambessa che purtroppo, nonostante la suggestiva originalità del titolo, pochi hanno letto, ed infine moltissime poesie giocose, conviviali, satiriche, che Antonicelli spesso ha scritto e donato agli amici senza tenerne una copia e subito dimenticandosene, sicché qualcuno un giorno dovrà pur raccoglierle perché non vadano inesorabilmente disperse.
Educato sui classici italiani e francesi, i poeti che egli ha preferito e intorno a cui ha lavorato per anni sono stati Pascoli e Gozzano. A quest’ultimo specialmente egli è rimasto sempre fedele. Dal saggio Come nacque la Signorina Felicita al volumetto in cui ha raccolto scritti rari su Gozzano, accompagnandoli con lo studio delle varianti, La moneta seminata, Milano 1968, fino all’edizione Tallone del 1970, si registra una fedeltà che è soprattutto consonanza di stile: la pagina scritta bene, la parola giusta, ma anche un certo vagheggiamento gozzaniano di memorie torinesi, di stampe antiche, di ricordi domestici e di immagini del passato. “Ha amato le piccole case editrici appartate, che non cercano i loro lettori perché sono i lettori che cercano loro, come Scheiwiller” ha scritto Bobbio di lui.
E per amore del libro, Antonicelli, che è stato infaticabile lettore, si è fatto in tempi diversi editore, fondando due case editrici: quella del tipografo Frassinelli intorno al ’30 che ha presentato nella traduzione di Pavese Mobj Dick di Melville, Armata a cavallo di Babel e due volumi di Kafka, Il processo e una raccolta di novelle. Il lettore non dimentichi che le traduzioni pavesiane di letteratura americana unite a quelle di letteratura russa di Ginzburg, sono state durante il fascismo non solo una forma di opposizione, ma anche il mezzo per tenere ancora legata la nostra cultura a quella europea. L’altra casa editrice Antonicelli ha voluto intitolare al nome di uno stampatore quattrocentesco piemontese, Francesco de Silva, ed essa si è sviluppata soprattutto dopo la Liberazione. Il primo libro uscito da quella tipografia nel 1942 è stato la Germania di Madame de Stael con l’intento di “far conoscere la Germania che amammo contro quell’altra”.
Si comprende bene che per un uomo come Franco Antonicelli nella sfera della politica non può esserci che una concezione etica, nel senso che non bisogna rinvenirvi un’attività che accresca la potenza personale e della propria parte, ma una forma di vita associata che propugni la liberazione degli altri e proprio di quelli che chiedono, attraverso la politica, maggiore libertà e maggiore giustizia. E per questo Antonicelli ha pagato di persona con un primo periodo di carcere nel 1929 per aver firmato la lettera indirizzata da Umberto Cosmo e Croce, in segno di solidarietà per il discorso del filosofo napoletano al Senato durante il dibattito per la ratifica dei Patti Lateranensi (U. Cosmo firma molto volentieri perché la firma deve attestare all’illustre amico la sua ammirazione e la sua devozione per lui; pensa però che più alto onore all’opera sua di libero filosofo e di carattere fiero non potesse venire che dalla ingiuria del potente verso di lui. Dalla Lettera a Benedetto Croce, Senatore del Regno), e con un secondo periodo di confino ad Agropoli (Salerno) nel 1935 col gruppo della rivista einaudiana La Cultura e con gli organizzatori del movimento clandestino Giustizia e Libertà, ed infine l’ultimo arresto il 6 novembre 1943 a Roma dove ha partecipato all’organizzazione della Resistenza.
Presidente del Comitato di Liberazione Regionale per il Piemonte, senatore per due legislature come indipendente di sinistra, Franco Antonicelliè rimasto sempre fedele al nucleo liberale del suo pensiero per il quale nella degenerazione di una società che sopravvive a se stessa, la classe operaia gli è sembrata l’unico soggetto sociale capace di un autentico rinnovamento; ha seguito senza alcuna prevenzione i movimenti giovanili perché convinto che la Resistenza, quella vera, non è stata che un episodio grande, ma effimero, e poi è venuta la stanchezza, e perciò bisogna continuare a resistere prima di tutto alla tentazione di darsi per vinti, e poi a quella di cessare di battersi per far capire alla gente, anche alla più ottusa, che la Resistenza non è e non deve essere un partito, ma può essere ancora un incontro, un colloquio, una presa di contatto, un dialogo: un avviamento fra avversari politici ad intendersi e a rispettarsi.
Ecco perché noi sentiamo in Franco Antonicelli la presenza di spiriti gobettiani nonostante che proprio egli, ricordando Gobetti allievo ufficiale ed il sentimento provato di fronte a lui, abbia scritto nella prefazione a L’Editore ideale: “Io studente lo attesi una volta all’uscita di quella scuola, che era comandata da mio padre. Ricordo esattamente che mi annunciò la nuova rivista (la “Rivoluzione Liberale”). Ero di quelli che non capivano… Dirò che il suo ingegno mi sorprendeva ed affascinava, ma sentivo con disperazione che la distanza fra lui e me era troppo grande e mi annullava. Ci sono volute molte esperienze per colmarla un poco“.
Quali esperienze, dopo quelle già citate? Lo scatto della sua indignazione morale di fronte al sopruso, alla viltà, alla fiacchezza, ai tentativi di accomodamento. Se ne è avuta una prova nella discesa in campo aperto a Genova nel luglio del 1960 contro il governo Tambroni, e nei giorni del colpo di stato in Cile, quando ha chiesto a tutti fermezza, intransigenza ed inflessibilità nel giudizio di infamia per quei generali infami, ed atti calcolati nelle loro conseguenze politiche, e non proteste generiche, ed inoltre lo sforso per non imbalsamare l’antifascismo e la lotta di liberazione in miti di maniera, secondo quanto hanno interesse a fare proprio le forze che all’antifascismo ed alla Resistenza si sono opposte per interessi di classe o per dissenso ideologico, e soprattutto la lucidità veramente gobettiana nell’aspettazione della morte, anche questa passata attraverso la letteratura. “La morte mi gira intorno, -desiderosa mi fiuta – poi non so che l’attira – altrove o la metto in fuga. – Ma tornerà. Così forte – l’odore delle ferite – è in me che irresistibile – s’avventerà con furore”. Proprio così. Chi giorno per giorno ha seguito il decorso della sua malattia, ha avuto l’impressione che il 6 novembre 1974, a 72 anni, la morte gli si sia avventata addosso come egli ha previsto nei suoi versi: “con furore”.
[Franco Antonicelli letterato. Un epigono di Gobetti, in “Il Corriere di Galatina”, Anno III, 1976, n. 7, p. 3. ]
* Su Franco Antonicelli si veda qui sotto la recensione a Franco Antonicelli, Ricordi fotografici, Bollato Boringhieri, Torino 1989 dal titolo Ricordi fotografici di Franco Antonicelli, in Corriere, Anno IV, n. 6, giugno 1989, p. 2.