Ma che tipo di poesia è la sua, almeno fino a Pacò? È una poesia che non si può accostare ad altri autori o movimenti del secondo Novecento. Giustamente Donato Valli nell’Introduzione a Procedimenti, ha parlato di un “diario sui generis” nel quale “tutto, e l’entusiasmo della santa lotta, e l’allucinazione dei fantasmi della realtà, e il grido della ribellione e il pianto della sconfitta, sono puntigliosamente, quotidianamente registrati […] con lo slancio d’un credente, con la fedeltà d’un saggio”[2]. E, in effetti, questa abbondante produzione ha tutte le caratteristiche di un diario in versi che, per la maggior parte, vale più come documento di vita che come prodotto letterariamente compiuto e rifinito, anche se non mancano spunti e immagini apprezzabili anche da un punto di vista artistico.
Ma entriamo ora più da vicino nel merito di quest’opera. Le prime prove sono ancora, com’è naturale, ingenue esercitazioni scolastiche che rievocano momenti e personaggi della giovinezza dell’autore. Gli anni che vanno dal 1945 al 1954, in campo artistico e letterario, sono, com’è noto, quelli del neorealismo ma in questa fase della poesia di Miglietta non sono tanto i temi di natura sociale a prevalere quanto quelli di carattere esistenziale. Come ha scritto egli stesso, infatti, “in questo periodo è forte la presenza dell’Io, molto solitario, che si alterna sempre più a divertiti o dolenti squarci sul mondo esterno”[3]. Incomincia cioè da questo momento la sua riflessione sul mondo, sulla vita, sul rapporto io-altri, che continuerà, anche attraverso altre forme espressive, fino ad oggi.
Una fase diversa è quella che va dal 1955 al 1960. In quel periodo, in campo nazionale, il neorealismo entra in crisi e si afferma decisamente lo sperimentalismo. Anche nel Salento si sviluppa un dibattito piuttosto vivace su alcune riviste letterarie, quali “L’Albero” di Girolamo Comi, “L’esperienza poetica” di Vittorio Bodini, il supplemento del “Critone” di Vittorio Pagano e “Il campo” di Francesco Lala, Giovanni Bernardini e Nicola Carducci. Ma Miglietta non partecipa a questo dibattito, non collabora a queste riviste. Continua, come sempre, a scrivere incessantemente, e invia le sue composizioni a premi letterari di secondo piano, che però gli danno la possibilità di pubblicare. Escono così le sue prime plaquettes poetiche: Decimo libro (Bologna 1956), Nono libro (Roma 1958) e Libro XIV (Padova 1959). Ora si nota una certa apertura al reale, dal momento che, per usare ancora le sue parole, “i problemi dell’io si vanno man mano generalizzando e vengono immessi in ampie figurazioni con una verbalità in cui prevale la metafora sulla confessione schietta, anch’essa nota importante”[4].
A questo periodo risale anche la raccolta Viaggio nell’utopia, apparsa nel 1986 con la prefazione di Adriano Spatola[5], caratterizzata dall’uso di un verso lungo, dal tono quasi salmodiante, in cui l’autore conduce una personalissima riflessione sull’amore, la giustizia, la società, il rapporto col prossimo, il desiderio di libertà che c’è in ciascuno di noi.
La terza fase, che va dal 1961 al 1970, è quella delle prime pubblicazioni “ufficiali” di Miglietta. Sono, questi, anche anni decisivi per gli sviluppi della letteratura italiana che si avvia verso la sperimentazione con la nascita della neoavanguardia e la costituzione del “Gruppo 63” e del “Gruppo 70”. Miglietta dunque pubblica i suoi due primi “libri”, che rappresentano anche, senza alcun dubbio, gli esiti più convincenti e originali in campo poetico: Pacò nel 1964 e L’eroe di paglia nel 1970. Si tratta, come ha scritto l’autore, di due esperienze “opposte”: “in una prevale il contenuto, nell’altra la forma; una è sofferta, l’altra è giocata; in una vi è la ricerca dell’uomo, nell’altra quella delle parole”[6].
Pacò [7] è una sorta di autobiografia poetica, ma anche il ritratto di una generazione cresciuta durante la guerra e maturatasi negli anni Cinquanta e Sessanta. Suddivisa in tre parti, precedute da una Premessa, questa raccolta segue le esperienze di vita del protagonista, Pacò appunto, dall’infanzia all’età adulta, alternando la narrazione in versi alla riflessione. Nella Parte prima si arriva fino alla giovinezza di Pacò attraverso la rievocazione di una serie di esperienze da lui avute, collegate ai tempi difficili del secondo dopoguerra e del decennio successivo. La Parte seconda contiene le riflessioni del protagonista. La Parte terza descrive invece le vicende di Pacò fino all’età adulta con il lavoro, il matrimonio, la nascita dei figli, il piccolo benessere raggiunto e la routine quotidiana. Si tratta di una poesia di tipo prosastico e narrativo, con frequenti iterazioni e l’uso del linguaggio parlato, anche questa non collegabile a precise correnti della lirica italiana del Novecento, se non forse, almeno in parte, al neorealismo.
La seconda raccolta pubblicata, invece, L’eroe di paglia[8], si avvicina decisamente allo sperimentalismo tipico di quegli anni e prelude alla svolta definitiva che avviene nel 1970. Qui non c’è una narrazione continua, come in Pacò, ma una caleidoscopica rappresentazione della realtà frammentata in tanti aspetti tratti dalla cronaca, dalla politica, dalla cultura, dallo spettacolo, dallo sport. Miglietta non risparmia ora la sua ironia nei confronti di una società sempre più avanzata tecnologicamente ma avviata anche verso un consumismo esasperato e una crescente disumanizzazione. Incomincia a perdere la fiducia nel potere della parola come “segno” linguistico (unione di significante e di significato) e si abbandona a giochi verbali, associazioni, dissociazioni di termini, scomposizioni, ripetizioni, ecc, privilegiando nettamente il significante. L’eroe di paglia si può considerare insomma, per usare il titolo di un libro di Renato Barilli, la tappa conclusiva del “viaggio al termine della parola” di Miglietta.
Un’appendice a questa fase è costituita dalla raccolta La strada nuova, in cui sempre per quadri staccati è narrata la storia di una speculazione edilizia in un piccolo paese del Sud, sulla base della personale esperienza lavorativa dell’autore. Di quest’opera egli farà una singolare autoedizione nel 1994, accostando, sul recto e sul verso di ogni tavola, il singolo componimento manoscritto con una sua rielaborazione grafica che rende visivamente l’idea della progressiva urbanizzazione del paese.
Da qui dunque bisogna partire per capire la “svolta” di Miglietta e il passaggio a un’altra forma di espressione artistica. Tra il 1968 e il ’69 compone intanto ventuno poesie “motorie”, con le quali inaugura, nel 1970, il Laboratorio di poesia di Novoli e, al tempo stesso, incomincia a uscire “fuori” dal libro. Di che si tratta esattamente? Si tratta di composizioni spedite in copie eliografiche, su rotoli piegati a soffietto, ad alcuni centri sperimentali italiani e stranieri, con le quali l’autore intendeva stabilire un rapporto diverso con i lettori, cercando di coinvolgerli maggiormente, invitandoli ad agire, a eseguire ordini, inviti, suggerimenti. In alcune di queste poesie alle parole vengono sostituiti segni o disegni, in un evidente desiderio di ampliamento del codice verbale.
Nel frattempo si stava diffondendo, in Italia e in altri paesi europei ed extraeuropei, la sperimentazione poetica che si articola in tre correnti principali alternate nel tempo[9]: la “poesia concreta”, la “poesia visiva” e la “scrittura” (o “nuova scrittura”). Nella seconda metà degli anni Cinquanta era nata in Brasile, col Gruppo “Noigandres” di San Paolo, la “poesia concreta”, che sulla scia delle avanguardie storiche e poi del lettrismo proponeva la visualizzazione delle lettere tipografiche le quali assumevano sulla pagina un’evidenza fisica, concreta appunto, valida di per sé. Il concretismo si sviluppa poi in Europa, soprattutto in Svizzera, con Eugen Gomringer e in Italia con Carlo Belloli e successivamente con altri esponenti tra i quali ricordiamo Arrigo Lora Totino e Adriano Spatola. La poesia visiva invece, che nasce in Italia, a Firenze, nel 1963 con la costituzione del “Gruppo 70”, composto, tra gli altri, da Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Luciano Ori, Lucia Marcucci, ai quali successivamente si aggiungono Michele Perfetti e Sarenco, è basata sul rapporto tra parola e immagine, tra codice verbale e codice visivo che si fondono e danno vita a una sorta di intercodice, spesso con intenti di denuncia sociale e politica[10].
Tra il 1968 e il ’69, a Massafra e a Taranto, si allestiscono alcune mostre di poesia visiva, curate da Miccini e Perfetti con la collaborazione dei critici pugliesi Gianni Iacovelli, Franco Sossi e Pietro Marino, che vengono visitate anche da Miglietta, stimolandolo a tentare nuove strade. Negli anni che vanno dal 1970 al 1978 egli poi approfondisce i vari aspetti della sperimentazione verbovisiva attraverso una tesi di laurea che rappresenta uno dei primi tentativi di sistemazione, a livello nazionale, di queste particolari ricerche. Alcuni dei principali esponenti della poesia concreta, visiva, multimediale e della “scrittura”, con i quali entrò in contatto per la sua tesi attraverso incontri e interviste, furono poi invitati a esporre da lui, dal 1980 all’84, presso il Laboratorio di poesia di Novoli[11].
Dal 1970 incomincia così a fare le prime prove in questo campo, dapprima ispirandosi alla poesia visiva, della quale riprendeva la tecnica del collage, ma trovando ben presto nella “scrittura” la tendenza più congeniale alle sue capacità. La “scrittura” o “nuova scrittura” rappresentava l’ultima novità nel settore della sperimentazione poetico-visiva, anche se sviluppava il lavoro fatto da alcuni operatori tra Genova e Milano nella prima metà degli anni Sessanta, da Anna e Martino Oberto a Vincenzo Accame e Ugo Carrega. Questa tendenza, nata ufficialmente con una mostra milanese del 1976[12], cercava di sfruttare al massimo le potenzialità della scrittura della quale si individuavano sei elementi, “costitutivi del fare poetico”: “preposizionale (le strutture sintattiche del periodo), fonetico (il suono delle parole), lettering (la forma tipografica dei caratteri), segno grafico (una traccia visibile qualsiasi), forma (intesa in tutta la sua estensione “figurale”), colore (con riferimento alle sue capacità simbolico-espressive)”[13].
Nel 1978, nella galleria del “Sedile” di Lecce, Miglietta si presenta così al pubblico per la prima volta in questa nuova veste, organizzando una mostra delle sue opere dal titolo Incontri sulla scrittura – 1. In essa partiva proprio dal rifiuto della parola a vantaggio di un codice fatto di puri segni con i quali “raccontava” a suo modo e non senza una punta di ironia, umili fatti quotidiani basati sull’ossessiva ripetitività di gesti e azioni o addirittura millenni di storia. Al rifiuto della parola corrispondeva poi il riconoscimento, il recupero, l’utilizzazione di materiali linguistici e figurativi diversi, che possono essere di origine inconscia o possono alludere a un significato “altro”. Per questo faceva una sorta di inventario dei possibili “modi di scrivere”, che riconciliano col piacere manuale della grafia, enucleando i materiali grafici, i “mezzi” della scrittura, presi per se stessi, indipendentemente dal loro significato, utili tutt’al più per comporre strade e figure. E, a questo punto, quasi in opposizione, egli recuperava e catalogava “segni e simboli” utilizzati dall’uomo dalla preistoria ai nostri giorni, i quali racchiudevano concezioni, credenze, superstizioni. Quando ritornavano le vocali e le consonanti, esse erano ormai puri segni grafici privati dei loro significati, che davano luogo a un’esplosione fantasmagorica, a coloratissimi fuochi d’artificio. Alla fine del suo itinerario Miglietta presentava la pars construens della sua riflessione, cioè la proposta di una nuova e diversa e liberatoria scrittura che non si impara a scuola ma nella vita, dovunque, e che non deve servire come “via al potere”, ma per vivere in maniera più autentica e conoscere meglio la realtà che ci circonda.
Nella seconda mostra organizzata sempre a Lecce due anni dopo, nella galleria “Maccagnani”, dal titolo Altra scrittura / altra lettura. Poesia d’una ricerca, Miglietta proseguiva coerentemente nel suo discorso alla ricerca di un’“altra” dimensione della scrittura, oltrepassando quasi subito i confini della comunicazione verbale in vista di un notevole ampliamento e di un miglioramento anche qualitativo delle possibilità di comunicazione degli uomini tra di loro e con il loro ambiente. E per dimostrare ancora una volta l’inutilità o, quanto meno, l’inadeguatezza, degli strumenti tradizionali, iniziava la sua operazione divertendosi a leggere in maniera diversa, insolita, la scrittura convenzionale, appuntando l’attenzione esclusivamente sui puri materiali dello scrivere, sui segni grafici, presi per se stessi, indipendentemente dal loro significato. In tal modo si metteva a “rileggere” anche, con una sorta di masochistico compiacimento, le sue vecchie raccolte poetiche, le quali, perduta del tutto la primitiva “aura”, si dimostravano utili, al massimo, per comporre carte da gioco, scacchiere o altre immagini, con il semplice dipanarsi fisico della grafia, dei segni di cui erano composte. Alla stessa maniera invitava a leggere un giornale o brani della nostra più illustre tradizione letteraria, rifiutando la consueta lettura contenutistica e sottoponendo il linguaggio a vari tipi di analisi di immediata ed evidente comprensibilità.
A questo punto Miglietta compiva il salto definitivo, superando d’un tratto le “colonne d’Ercole” del codice verbale e approdando nel continente ancora inesplorato dell’ “altra scrittura”, una scrittura che si fa con gli oggetti i quali prendono il posto dei segni linguistici e forniscono informazioni in base alle loro dimensioni, disposizioni, al loro colore, ecc., proprio come le parole in un discorso verbale. E alla fine dava alcuni esempi di lettura di oggetti prodotti dall’uomo, enucleando dai rispettivi contesti i vari elementi significativi, con un procedimento omologo a quello seguito per la scrittura tradizionale. Anche qui insomma l’invito implicito era quello di “leggere” meglio tutto ciò che i nostri occhi vedono per avere un rapporto più armonioso e autentico con la realtà.
Nel 1993 Miglietta faceva una sorta di consuntivo del proprio lavoro con una mostra intitolata Manoscritti e altro (1977-93), allestita nelle sale del Castello Carlo V di Lecce, nella quale presentava un’ampia scelta della sua produzione. In quella più recente si poteva notare il tentativo pienamente riuscito di sfruttamento estetico del nuovo mezzo espressivo, che si manifestava attraverso una maggiore cura dell’aspetto formale delle composizioni. Miglietta dimostrava ora di saper coniugare perfettamente invenzione fantastica e competenza tecnica nella progettazione e nell’esecuzione delle tavole, che diventavano sempre più raffinate, complesse, variopinte. Ciò che colpiva era la sua capacità di saper svolgere, con pochi schemi fissi, una serie impressionante di “variazioni” sul tema. Nelle opere degli ultimi tre anni si assisteva poi a una vera e propria esplosione fantasmagorica, a un’inesauribile proliferazione di segni, di colori e di parole, le quali avevano un rapporto più stretto con il significato complessivo dei “manoscritti”.
In alcune composizioni, a predominare era il piacere, il gusto della composizione. In altre invece egli interveniva, a modo suo, su problemi di attualità, politica e sociale: le guerre, l’ecologia, il razzismo, il ruolo della donna nella società. Era presente anche una riflessione sull’uomo che Miglietta, nelle sue tavole, vedeva sempre più ridotto a schiavo dei meccanismi e rappresentato spesso, quasi alla maniera chapliniana, come un pupazzetto schiacciato dalle pulegge e dagli ingranaggi che rischiano in continuazione di stritolarlo.
Accanto alle esperienze di scrittura verbo-visiva su cartoncini e carta a colori, proseguite fino al 1999 anche attraverso l’allestimento di due altre personali a Milano nel 1981 e nel 1995 e la partecipazione a importanti mostre collettive in Italia e all’estero, Miglietta ha operato, come s’è detto, sempre con inesauribile fantasia e creatività, anche in altri settori della sperimentazione artistica contemporanea, continuando a intrattenere rapporti di scambio e collaborazione con numerosi centri sperimentali, italiani e stranieri. Ricordiamo, ad esempio: i videolibri, raccolte di tavole manoscritte con i quali tenta di sviluppare un discorso più organico e articolato, mettendo quasi alla prova la duttilità del nuovo strumento; i libri-oggetto, nei quali mette insieme materiali diversi decontestualizzandoli in funzione di un’idea, di una intuizione che cerca di svolgere coerentemente nelle “pagine” interne; gli innumerevoli interventi di mail art (o arte postale) inviati un po’ in tutto il mondo. Queste altre esperienze sono accomunate dalla presenza della scrittura manuale la quale costituisce, a ben vedere, una costante di Miglietta, il vero filo conduttore del suo lavoro, dall’inizio a oggi.
La scrittura ― quella sorta di “scrittura infinita” di Enzo Miglietta, come ci piace definirla al termine di questo intervento ― non manca nemmeno nell’ultima, più estrema e provocatoria delle sue sperimentazioni, l’“arte dalla spazzatura”, a cui si dedica dal 1999. Convinto della definitiva e irrimediabile “perdita della parola”, dell’inutilità della comunicazione verbale, inflazionata e diventata ormai inautentica, egli recupera materiali di scarto di ogni tipo (scatole di cartone, residui di polistirolo, buste di cellofan, vecchi manichini, marchi pubblicitari, ecc. ecc.) e li assembla dando loro una forma esteticamente accettabile. Dopo, con l’immancabile pennino da geometra, alla maniera di un antico scriba o di un monaco amanuense medievale chiuso nel suo scriptorium e intento a ricopiare preziosi codici, vi scrive da ogni parte (sopra, sotto, intorno) vecchie composizioni in versi o lettere dell’alfabeto. In tal modo cerca di salvaguardare, nobilitandoli, questi oggetti destinati a finire nei contenitori di spazzatura, indicando forse, al tempo stesso, anche la necessità di una soluzione a un problema diventato in questi ultimi tempi di drammatica attualità.
[In Enzo Miglietta e il Laboratorio di Poesia di
Novoli, a cura di S. Luperto, Lecce, Edizioni del Grifo, 2008: poi in A.L.
Giannone, Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti
del Novecento e oltre, Galatina, Congedo, 2009
[1] E. Miglietta, Esperienze di poesia tra il verbale e il non verbale 1945-1983, ciclostilato conservato presso il Laboratorio di poesia di Novoli, dicembre 1983, n. n., ma p. 5.
[2] D. Valli, Introduzione a E. Miglietta, Procedimenti (1950-1970), Lecce, Piero Manni, 1993, p. 7.
[3] E. Miglietta, Esperienze di poesia…, cit., p. 3.
[4] Ivi, p. 5.
[5] Torino, Tam Tam, 1986.
[6] Ivi, p. 10.
[7] Cosenza, Pellegrini, 1964.
[8] Lecce, Editrice L’ “Orsa Maggiore”, 1970.
[9] Su questo argomento cfr. almeno: L. Pignotti, Istruzioni per l’uso degli ultimi modelli di poesia, Milano, Lerici, 1968; A. Spatola, Verso la poesia totale, Salerno, Rumma, 1969 (II ed., Torino, Paravia, 1978); L. Ballerini, La piramide capovolta, Padova, Marsilio, 1975; V. Accame, Il segno poetico, Samedan, Munt Press, 1977; L. Pignotti – S. Stefanelli, La scrittura verbo-visiva. Le avanguardie del Novecento tra parola e immagine, Roma, Espresso Strumenti,1980; L. Vetri, La “poesia totale”, in Id., Letteratura e caos. Poetiche della “neoavanguardia” italiana degli anni Sessanta, Milano, Mursia, 1992, pp. 211-286.
[10] Per una ricostruzione di questo movimento cfr. Aa. Vv., La poesia visiva (1963-1979), cat. della mostra a cura di L. Ori, Firenze, Vallecchi, 1980.
[11] Sull’attività del Laboratorio, sulla quale si rinvia in questo catalogo allo scritto di S. Luperto, cfr. anche A. L. Giannone, Il “Laboratorio di poesia” di Novoli, in “Contributi”, a. I, n. 4, dicembre 1982, pp. 109-111.
[12] Cfr. Aa. Vv., La scrittura, catalogo della mostra itinerante a cura di I. Mussa, Roma 1976.
[13] V. Accame, Il segno poetico, cit., p. 91.