Memorie melissanesi narrate con Il ritorno del Cusufai di Vittorio Velotti

Ogni uomo, ugualmente, all’arrivo d’ogni nuova stagione della sua esistenza, si sente spinto da un istintivo bisogno di rinvigorirsi e di dare voce agli aneliti del suo animo, forse alquanto coartato dal gelo della sua passata stagione invernale. L’uomo contemporaneo ne ha particolare bisogno. Infatti, la cultura che oggi domina nelle società soprattutto dell’Occidente, rende sempre più difficile vivere con autenticità e in libertà, in quanto stanno sempre in agguato le lusinghe dei messaggi – mandati in maniera manifesta od occulta tramite anche “immagini fotografiche” – con i quali si diffondono prospettive di successo a portata di mano e si promette facile e immediato benessere. Di conseguenza nella società odierna non è agevole salvaguardare la propria libertà e difendere l’autonomia della proprio giudizio critico, in quanto, chiunque si discosti dal pensiero comune dominante, dovrà pagare, nella realtà, un prezzo davvero molto alto: quasi sempre si finisce con l’essere sospettati e, di fatto, emarginati. Nasce da ciò il forte bisogno di “solitudine”, ricercata non come gretto rifugio egoistico, ma spazio indispensabile per verificare lo stato della propria esistenza. Bisogno, comunque, che non estingue assolutamente l’anelito a “stare insieme” in un consorzio umano schietto e fidato. Il rivedere e rivivere, allora, il passato costituisce un momento quanto mai ricercato e utile. A tal fine è quanto mai gradito ed efficace poter sfogliare un raccoglitore di fotografie, silenti testimoni d’una vita vissuta e discrete compagne d’ogni presente. Proprio come il volume che qui si pubblica.

Queste considerazioni, pertanto, rafforzano la necessità di conoscere la natura della fotografia, di studiarne il ruolo e comprenderne il valore. La fotografia, infatti, non è un’immagine simile a quelle destinate ai volantini pubblicitari; come, d’altra parte, l’arte del fotografo non è di far tradurre tecnicamente da una macchina immagini di genere indistinto. E’ indiscutibile che anche il mondo della fotografia è coinvolto dalla cultura, in cui opera, arricchendosi, quindi, dei suoi valori, ma subendone anche gli eventuali influssi negativi, quali lo svuotamento dei contenuti e il deterioramento della bellezza.  Anche le immagini fotografiche, infatti, rischiano di trasformarsi in semplici simboli, senza pregnanza di alti valori e nobili sentimenti, La tecnologia si sta impadronendo della vita dell’uomo, sicché sembra che stiano automatizzandosi persino i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Preoccupa, perciò, osservare che la fotografia, oggi, valutata nella sua dimensione di tecnica e di arte, cioè di riproduzione ed di espressione, presenta spesso contorni sfumati e ambigui: sembra ridursi talora a pura duplicazione della realtà, svuotata del suo significato essenziale di “ricostruzione del mondo”. Il fotografo, da primario artefice creativo, si riduce spesso a esecutore automatico d’un programma predefinito d’una macchina: non più protagonista d’un suo personale processo creativo, egli rimane asservito alla macchina, perdendo il proprio ruolo di libertà artistica, che deve rimanere, invece, l’insostituibile salvaguardia del senso profondo di umanità in ogni attività e in ogni conquista.

Ormai siamo quotidianamente sommersi da immagini anche fotografie onnipresenti: in libri, manifesti, vetrine, bottiglie, barattoli, vestiti e persino sulla biancheria intima. L’osservatore inesperto vede in quelle immagini delle figure, che riprodurrebbero qualcosa proveniente dal mondo esterno, in quanto egli è tacitamente convinto che la fotografia coincide sempre e totalmente con il mondo reale. Ma non è cosi. Un’immagine in bianco e nero, infatti, non riproduce i colori reali della cosa raffigurata che non sarà mai solo bianco-nera, cosi come un’immagine a colori non è l’esatta riproduzione dei colori veri della cosa esterna esistente nel mondo reale. “Scrutare” una fotografia, allora, non significa soltanto guardarla, ma significa “decifrare” il contenuto, che il fotografo, servendosi della sua macchina con intelligenza e sentimento e in indiscussa libertà, ha “cifrato”. In quest’azione, allora, bisogna saper distinguere l’intenzione del fotografo-artista dalle limitazioni dei meccanismi automatici della sua macchina. Il raffronto fra l’intenzione creatrice del fotografo e l’automatismo della macchina mostra che in alcuni momenti convergono e collaborano, in altri momenti divergono e contendono reciprocamente. L’osservatore attento ed esperto, quindi, deve saper cogliere i diversi momenti di collaborazione e di lotta. E’ assolutamente d’accogliere e condividere, quindi, il convincimento di Vilém Flusser, lo studioso tedesco ormai imprescindibile punto di riferimento per la cultura informatica: “La migliore’ fotografia – scrive – sarà quella in cui l’intenzione umana del fotografo ha sconfitto il programma dell’apparecchio, quella cioè in cui il fotografo ha sottomesso l’apparecchio all’intenzione umana” (V. Flusser, Per una filosofia della fotografia, Berlino 1983, trad. it., Bruno Mondadori 2006, pp.59-60).

Melissano,  Ottobre 2016                                                                               

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