di Antonio Errico
La cattiva consuetudine di fare la differenza fra quello che dirò tra qualche riga, in questo tempo si è fatta un po’ meno frequente, ma fino a non molti anni addietro era un luogo comune costante, insistente. Anche seccante, in realtà. Si potrebbe forse dire che in qualche modo si è capito che si trattava di un errore grossolano. Ma ancora non si è capito compiutamente.
La differenza che si faceva, dunque, era quella tra sapere che serve e sapere che non serve.
Se si volesse risalire all’origine dell’errore, probabilmente si dovrebbe arrivare al periodo che va dall’inizio degli anni Sessanta alla fine dei Settanta, perché è stato il tempo in cui questo Paese prima ha destinato il latino ad insegnamento di integrazione dell’italiano nella seconda classe della scuola media e facoltativo nella terza classe, e poi lo ha eliminato.
Disse una volta Luca Cavalli Sforza che, fra tutte le sue esperienze scolastiche, la traduzione dal latino è stata l’ attività più vicina alla ricerca scientifica, cioè alla comprensione di ciò che è sconosciuto. Proprio questo è l’importante, disse: esercitarsi nel procedimento logico-induttivo che è necessario in qualunque ricerca, quel che gli inglesi chiamano l’ inferenza scientifica. Il processo di base è lo stesso in tutto il sapere.
Se una cosa del genere la dice un latinista, un umanista in senso generico e generale, allora si può anche pensare che stia tirando acqua al suo mulino. Ma Luca Cavalli Sforza è stato uno scienziato, un genetista, che acqua comunque non doveva portarne a nessun mulino se non a quello della serietà e della qualità del pensiero orientato alla ricerca.
Naturalmente quello del latino è soltanto un esempio, o forse una metafora. Però potrebbe anche risultare significativo nel contesto della differenza che si continua a fare tra il sapere che serve e il suo contrario.
Molto, molto, molto interessante e bello. Letto e riletto. MG