Gobetti e dintorni 6. Da Hegel a De Sanctis negli scritti di critica teatrale di Piero Gobetti

Compito dell’attore è la liberazione dal troppo umano:

“(…) la dignità di interprete non dovrebbe consentirgli mai di abbandonarsi ciecamente alla passione, che egli deve rappresentare e non vivere, voglio dire misurare con continua presenza, non sfrenare in piena esaltazione (…)”[11].

E’ il punto d’arrivo di un metodo critico che ha spostato il suo interprete verso dimensioni drammaturgiche aperte e problematiche, idonee da una parte a sottolineare il ruolo del gusto e del costume che vanno mutando, e dall’altra ad introdurre nella realtà un principio spirituale. La critica teatrale, invece, che passa attraverso le regole fisse della cronaca, e cioè la trama, il giudizio critico, l’interpretazione e la reazione del pubblico,  non indica a sufficienza le articolazioni attraverso le quali nel teatro si svolge la cultura come società, moralità e carattere.

La visione dell’arte in Gobetti è toccata dalla lunga meditazione hegeliana prima, e da quella desanctisiana dopo.

Partiamo dalla definizione di Hegel (in Lezioni sull’estetico), secondo cui l’arte non è il tralucere di una forma ideale nel sensibile, bensì l’apparire dell’Assoluto nella sfera della sensibilità non come universale astratto, ma come universale che ha in sé e in sè muove il particolare. Questo principio estetico appare già chiaro alla luce di quest’altro pensiero di Hegel:

L’arte esige, per le intuizioni che essa deve produrre, un materiale esterno e dato, tra cui sono anche le immagini e le rappresentazioni soggettive, ma anche per l’espressione del contenuto spirituale, le forme naturali date, secondo il loro significato, che l’arte deve divinare e cogliere. Tra le forme quella umana è la più alta e vera, perché solo in lei lo Spirito può avere la sua corporeità  e quindi la sua espressione intuibile[12].

Hegel distingue qui, nel contenuto dell’arte, le immagini ideali tra cui la più esteticamente adeguata è quella umana, e gli elementi empirici sia di origine fisica che psicologica, in cui quelle trovano la loro concretezza espressiva.

Quanto precede conferma la radice hegeliana del pensiero di Gobetti, che tiene conto di quella distinzione e considera il teatro fondato su musica, architettura, corpo umano, luce-colore e ambiente come elementi che consentono per la loro mobilità di trovare ogni volta una loro sintesi, mentre poesia e pittura restano sopraffatte per la loro rigidità dalle nuove armonie che nascono improvvise al momento dell’azione scenica. Perciò il teatro è un fatto d’arte, il frutto di una libera creazione, anche se storicamente esso vive di una funzione pubblica e corrisponde a specifiche situazioni sociali.

A ciò si aggiunga che il teatro non promuove l’elevazione di tutti a una pura serenità estetica perchè la sua vita è al di là della natura e perciò l’arte non è fatta per il popolo, ma per i pochi che possono viverne e soffrirne e rinvenirvi valori di stile e di liricità.

Bisogna partire da queste premesse per capire i motivi di fondo della polemica negli anni Venti di Gobetti contro Ermete Zacconi, il grande attore che avoca a sé la responsabilità dello spettacolo nella sua interezza, capocomico e maestro oltre che interprete principale.

Nel dibattito culturale che sottolinea la crisi dell’ideologia liberale negli anni che immediatamente precedono e seguono il fascismo, il grosso pubblico ha creduto, per le carenze illiberali dell’informazione, che gli interlocutori della polemica siano stati gli attori Tommaso Salvini ed Ermete Zacconi a proposito de La morte civile di Giacometti. Zacconi ha rappresentato la morte di Corrado secondo i canoni più rigidi della scuola veristica, Salvini, invece, ha propugnato che vero e bello dissentono ed ha rappresentato una morte per crepacuore.

In realtà critico costante e puntiglioso di Ermete Zacconi è stato soltanto Gobetti che, primo in Italia, ha fatto dell’opera dell’attore un vero e proprio oggetto di studio estetico, proponendosi di ricercare in lui gli elementi che poi ha portato alla valutazione e alla ricostruzione delle opere d’arte. Gobetti difatti ha segnalato con cordiale approvazione La bisbetica domata e Il Cardinale Lambertini, le due più grandi interpretazioni di Zacconi, e ha indicato come mediocri e dignitose le scene di drammi borghesi come Il padrone delle ferriere e I disonesti. Ha invece protestato con vigore contro la ricostruzione de Gli spettri di Ibsen perché l’arte non può mai diventare fisiologa e non consiste

… nel preparato che in laboratorio si esamina col microscopio (…), ed Osvaldo, protagonista dell’opera, finisce con l’essere la materiale esemplificazione di un propagandista alla campagna antialcoolica (…). Trasformare il teatro in clinica, l’attore in neurastenico, sembra troppo umiliante a chi non serbi una certa speranza nell’educazione estetica del teatro (…)[13].

Sull’Otello il giudizio di Gobetti è più circostanziato. Otello non uccide Desdemona per gelosia, ma specialmente per un bisogno di purificazione, per togliere via il peccato e riconsacrare l’amore. Perciò la soffoca col guanciale, purificazione dal peccato per mezzo di ciò che ricorda il peccato.

Lo Zacconi ha deturpato questa finezza ricorrendo alla spada, dopo che una prima volta ha soffocato Desdemona; infine, dando un carattere di giustizia un po’ superstiziosa, un po’ bestiale al delitto, ha soppresso la corda dolcissima della pietà e dell’affetto, che egli ha inteso così poco da consentire a tralasciare il bacio finale, conclusione di una vita d’amore, di Otello alla sposa.” [14]

Nella ricostruzione zacconiana del Nerone di P. Cossa, il protagonista perde i suoi caratteri più vivi per avvicinarsi alla volgarità di un qualunque uomo corrotto. Zacconi ha voluto sovrapporre la sua personalità di attore crudamente realista alla misura estetica che il personaggio del Cossa mantiene in tutto lo svolgimento drammatico.

“Trattasi di assoluta incomprensione, mancanza di gusto e di sensibilità; di fronte a Nerone non è parso vero allo Zacconi di poter aggiungere un’altra figura: l’ubbriaco vigliacco, alla sua lezione fisiologica di epilettici, maniaci, degenereti, alcoolizzati.” [15]

Gobetti ha così esercitato la sua libera critica che adempie alla funzione di utilizzare a forme mature di valutazione certe oscure intuizioni dello spettatore comune. A questo proposito si rileva che al tempo della polemica nessun critico ha preso la difesa dell’attore, e in secondo luogo Gobetti ha indicato dialetticamente un modo nobilissimo di essere rispettosi verso il pubblico mediante la necessità che critico e attore, reciprocamente responsabili ma intellettualmente disinteressati, si pongano in un rapporto volto a fecondare valori di cultura, attraverso il controllo dell’operosità artistica che, naturalmente, non può non spettare all’aristocrazia intellettuale del critico.

Per la storia del costume teatrale, per il quale, regalando il diritto alla poltrona in teatro, il grande attore ritiene di comprare l’approvazione o il silenzio del critico, segnaliamo che, a coronamento della polemica, la direzione del Teatro Balbo di Torino con una lettera del 31 marzo 1921 indirizzata al direttore del giornale “L’Ordine Nuovo”, interdice a Gobetti di intervenire agli spettacoli dello Zacconi. Documento di meschina grettezza, la lettera conclude così:

Si pregia avvisarvi che da questa sera sono vietate le entrate ai signori del vostro giornale anche muniti di tessera a suo tempo da questa Direzione rilasciata, disponendo altrimenti della poltrona segnata per il vostro giornale. Col massimo rispetto di voi devotissimo. L’amministratore Delegato Felice Bosco“.

Il momento desanctisiano della critica di Gobetti

Non si è compreso che la critica contro Zacconi ha radici ben più profonde che una banale questione di bottega, e va giudicata come una fase di sviluppo attraverso cui il giovane critico ricerca se stesso. In questo processo bisogna inserire e coordinare la critica di Gobetti a Maria Melato, che ha ridotto a scarna psicologia e a naturalismo chiaramente approssimativo La lupa che il Verga, invece, ha trasformato da fatto patologico in realtà artistica; la definizione di Antonio Gandusio “come attore della commedia dell’arte”, perché l’attore si ferma a ripetere sulla scena una eterna macchietta, l’uomo che si stupisce, e siamo quindi in pieno Seicento, cioè all’arte stereotipica; i profondi limiti che il tempo gli ha posto e di cui non è riuscito a liberarsi Armando Falconi, nato in epoca di verismo artistico e di positivismo culturale; e infine la stroncatura di Angelo Musco quando Luigi Pirandello ritira le sue commedie dal repertorio dell’attore

“(…) perché uno è l’artista e diciamo pure l’artista più originale del nostro teatro moderno, e l’altro è il pagliaccio, l’attore da “varietà” o da piazza. E l’interpretazione di un pagliaccio a un’opera d’arte deve necessariamente ridurre a pagliacciata anche l’opera d’arte. Il buffone non può salire all’artista ed obbliga l’artista a discendere sino a lui (…)”.

Giudizio impietoso che Gobetti ridimensionerà a proposito di Liolà, riconoscendone l’unico esempio di interpretazione vera e propria in cui Angelo Musco, rinunciando all’esuberante banalità dei suoi pezzi di bravura, ha saputo raggiungere la dignità dell’arte.

Certamente Gobetti è fautore di un’arte che diremmo contemplativa e serena, che guida l’anima verso le regioni superiori dell’ideale, ma non v’è dubbio ch’egli condanna l’eccesso di realismo il quale perturba lo spirito e accende le passioni. Questo principio può essere meglio verificato tornando a Zacconi. Il verismo della sua rappresentazione è una forma attraverso la quale si esprime uno dei tre momenti spirituali, quello dell’arte, che rappresenta uno dei tre aspetti attraverso i quali si svolge la coscienza dell’imminenza dell’Assoluto; gli altri due sono (hegelianamente) la religione e la filosofia. A Gobetti non sfugge che l’arte è idealità che percorre tutto il reale e ne rende possibile l’analisi concreta, e in questa linea il verismo zacconiano potrebbe anche essere giudicato un elemento formale di quell’analisi. Però di fronte all’oggettività del mondo etico umano, l’arte rimane sempre idealità e quindi, secondo Gobetti, il verismo di Zacconi finisce con l’essere riduttivo del prodotto essenziale dell’arte che consiste nella tensione che deve nascere dall’urto fra la determinazione concreta della realtà artistica e la coscienza del suo senso ideale. Per maggiore chiarezza precisiamo che l’attore non deve entrare nella produzione dell’arte come individuo particolare, bensì come mera attività in cui si attualizza la sintesi estetica.

Ogni fatto artistico ha in sè qualcosa di misterioso. L’attore, secondo Gobetti, deve intendere e rappresentare, cioè risolvere quel mistero, affrontando l’opera d’arte nella sua interiorità e penetrando nel movimento sentimentale dell’autore con animo critico di misura. Zacconi, invece, coglie la fisica, la fisiologia e la patologia del protagonista. Siamo nel cuore della ricerca critica fondamentale di Gobetti, per il quale, quando una realtà non è pienamente matura (è il caso di una realtà battuta da un eccesso di verismo), l’ideale non appare ancora opposto al reale, e quindi quel mondo non può essere ricostruito nella sua propria sostanza, cioè nella forma di un regno intellettuale.

La battaglia di Gobetti a questo punto si colora e si dilata sino a indicare l’assenza di responsabilità storica della borghesia italiana:

“(…) che Ermete Zacconi sia riuscito per quarant’anni ad affascinare il pubblico con opere come questa (Gli spettri), non è meraviglia per chi sappia che cosa rappresentino nella vita italiana gli anni 1880-1914: la generazione bastarda che nacque dai costruttori del Risorgimento non ci seppe dare, fuorché in voci solitarie e sperdute, alcun valore culturale ed ideale. L’arte colla formula del verismo scendeva alla fotografia: e la reazione al verismo ero un frollo romanticismo pascoliano. Ermete Zacconi è l’attore di questo mondo di positivismo, di stasi. Egli ha un grandissimo significato nell’arte italiana: ha trasformato il fatto spirituale della tragedia in fisiologia. Il tempo suo non ha conosciuto la passione, la lotta ideale, ma soltanto i fenomeni di pervertimento ereditario, di degenerazione fisica (…)”[16].

Gobetti è ormai passato a De Sanctis. Nella pagina c’è l’eco del giudizio desanctisiano sull’opera del Guicciardini:

La razza non è ancora sanata fa questa fiacchezza morale, e non è ancora scomparso dalla sua fronte quel marchio che ci ha impresso la storia di doppiezza e di simulazione. L’uomo del Guicciardini vivit, immo in sanatum venit, e lo incontri ad ogni passo. E quest’uomo fatale ci impedisce la via, se non abbiamo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza (…)”.

Così Gobetti ha espresso un giudizio di critica letteraria e un giudizio di vita etica perché per lui letteratura e vita morale e civile desanctisianamente si intrecciano.

Ermete Zacconi rappresenta nel teatro il positivismo italiano nato come intermezzo e stasi dopo l’anelito alla liberazione del Risorgimento, periodo di crisi in cui l’arte è potuta essere soltanto arte di transizione, cioè “non arte”, se si eccettuano Carducci e d’Annunzio che con la loro personalità hanno superato il meccanismo convenzionale della vita.

Il giudizio etico nasce, invece, dallo studio cui Gobetti sottopone la vita italiana con costante riferimento a un ideale di maturità moderna, per cui “La Rivoluzione liberale” propugna una ristrutturazione sociale complessiva e un avvicendamento delle classi al potere come mezzo di rinnovamento della politica italiana e della pubblica moralità.

Nella seconda metà dell’Ottocento le condizioni storiche e culturali dell’Italia meridionale con una Napoli borbonica in cui ogni movimento di libera cultura è stato coscientemente paralizzato, hanno reso propizia l’esperienza hegeliana. Se entro la dialettica della vita spirituale l’arte viene superata secondo l’ordine di successione di valore nelle forme della religione e della filosofia come immediatezza, estraniazione e superamnento, essa è sottratta alla prova della storia e viene così decretata la sua morte, perché si nega la sua specifica autonomia. Qui si inserisce la riforma di Francesco De Sanctis il quale considera arte, religione e filosofia, forme non progredienti ma parallele che concorrono ad esprimere la sostanza storica di un’epoca. Il problema dell’arte si invera così e si risolve in uno storicismo concreto, dal momento che le diverse epoche storiche proiettano nell’arte, nella religione e nella filosofia il colore che la sola storia può offrire. Siamo sulla strada dell’arte realistica come riscossa contro la morte dell’arte decretata dalla filosofia hegeliana. All’interno della riforma desanctisiana l’arte ridiventa creatrice perché emerge un problematico contenuto umano; per esempio il destino dell’uomo, per il quale l’arte medesima sopravvive accanto alle altre attività attraverso il concetto di forma come espressione nel senso di cosa espressa e come il tradursi del contenuto, che è intellettuale in quanto ideologico, storico, etico, politico, religioso, ecc., in una specifica struttura organica ed individuale propria dell’opera d’arte e di quella situazione artistica. Quando l’idea è già passata nella forma e l’individuo vi si è innalzato, è raggiunta l’essenza dell’arte.

Zacconi non consegue tale risultato nell’Otello, perché non ha capito che tutta la tragedia è in Jago che costringe gli altri, anche Otello, ad accettare la sua personalità. In altre parole, Jago invera la forma, cioè l’espressione della malvagità che si pasce di sé medesima.

Chi voglia commisurare quanta parte della riflessione desanctisiana sia passata nel metodo critico di Gobetti, deve leggere gli scritti di critica teatrale  su Eleonora Duse e Alda Borelli. Se è vero che l’arte deve trapassare in una diversa e più alta forma di verità, per cui i fatti artistici, secondo De Sanctis, vengono situati nella generale cornice d’una progressiva incarnazione dell’ideale, Gobetti è rimasto coerentemente fedele a questo schema evolutivo desanctisiano. L’analisi dell’arte di Eleonora Duse ce ne dà la conferma. Il teatro per la Duse è educazione, che essenzialmente deve significare elevazione per il suo concetto… “di unità ideale in cui arte, moralità, verità rientrano in un rapporto sano”[17]. Inoltre l’arte della Duse rappresenta la liberazione della vita da tutte le formule e da tutti i limiti in cui il positivismo ha voluto contenerla. Per questo fine è necessario che in ogni attimo della vita si realizzi tutta la vita medesima. Se la logica rifiuta il mistero e la legge estetica postula che il mondo immediato debba avere il suo inveramento e la sua risoluzione nella chiarezza della mediazione spirituale, tuttavia non si può negare che il mistero esiste come fatto sentimentale, come abbiamo indicato nelle pagine precedenti. Nell’arte della Duse esso si configura come elemento centrale della sua personalità e come testimonianza di stimolo  che documenta l’inesauribilità della vita, in particolare della vita dell’attrice.

Nella recitazione della Duse l’opera scompare in quanto non viene analizzata, ma trasformata come un’esperienza mistica. “Così alla Donna del mare ella ha fatto in tre sere; un dramma di graduale ispirazione mistica, una prima volta; di statica malinconia, angosciosa, risolta poi in una pacata serenità, la terza. Di questa rinnovazione meravigliosa nessuno le può chiedere ragione in quanto ella supera concretamente nella vita sua tutte le passioni e tutte le espressioni artistiche realizzate dagli autori (…)”.

Gobetti è così giunto a formulare il principio essenziale del suo metodo di critica teatrale per il quale l’applicazione di qualsivoglia estetica finisce col limitare ogni comprensione.

Questo accade perché nell’attore, quando è veramente tale, c’è una personalità di critico d’arte che rivive l’opera che ha di fronte senza sopprimerla, cioè senza moralmente diventare uno col personaggio che rivive ed obliando nell’opera la propria persona e la sua umanità “per cercare essenzialmente una contemplazione critica (Contemplazione perché serena; Critica perché riflessa, non immediata) di quell’opera che, indipendentemente (in un certo senso) da ciò che l’autore ha realizzato, egli, attore, realizza (…)”.

E’ insomma la formula dell’attore come critico-artista cui corrisponde nella sfera letteraria quella di artifex additus artifici. Esempio di questa attività in Italia nei primi decenni del secolo è stata, oltre la Duse, Alda Borelli,  che per la sua personalità, la quale ha trasceso ogni spunto soltanto morale, ha potuto interpretare le opere più diverse, è la sua interpretazione ha avuto sempre la validità di uno studio critico.

In conclusione, la vitalità dell’estetica gobettiana ci sembra che risalga sempre al De Sanctis. Il rivivere l’opera che ha di fronte da parte dell’attore, non è altro che la rappresentazione corporale dell’astratto. Ma l’astratto qui non è l’idea o lo Spirito, di cui per Hegel la forma sensibile è stata manifestazione inadeguata, bensì è quel contenuto problematico che De Sanctis ha affermato comune alla filosofia e all’arte. Si torna così all’uomo e alla sua concretezza reale. Gobetti ha chiuso così il circolo da Hegel a De Sanctis.

Note

[11] P. Gobetti, Scritti di critica teatrale, Einaudi, Torino 1974, p. 627.

[12] Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, II, Laterza, Bari 1975, p. 539, par. 558, sez. sull’arte.

[13] P. Gobetti, Scritti di critica teatrale, cit., p. 146.

[14] Ibidem, pp. 141-142.

[15] Ibidem, p. 135.

[16] Ibidem, p. 146.

[17] Ibidem, p. 173.

[Da Hegel a De Sanctis negli scritti di critica teatrale di Piero Gobetti, in “Contributi”, anno II, n. 4, dicembre 1983, pp. 77-87, Congedo Editore, Galatina.]

Questa voce è stata pubblicata in Letteratura, Teatro e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *