DEL RABBINO VOLUTOSI PIETRA:
Oria: Il viaggiatore salga appena un po’ sulle alture di Oria affacciate sulla piana, e guardi: a Oriente il Brindisino, a Occidente il Tarantino.
C’è un punto dell’antica città, percorse strade in leggera salita e gradinate, dove si passa accanto al Duomo e si entra nella piazza come balconata spalancata e protesa sulle terrazze di Oria e sulla piana salentina.
Il Rabbino:Chissà: forse tra Quattrocento e Cinquecento uno dei tanti filosofi naturalisti di Terra d’Otranto, dopo aver montato due immense ali di metallo e tela su una struttura di tiranti e ruote dentate, cercò di involarsi da questa spianata credendo nelle leggi suggerite dal volo degli uccelli e nella capacità della mente di decifrare gli arcani della natura.
Chissà: forse uno dei Rabbini di Oria, avendo fede nella propria fede nell’Altissimo, scoperse il nome segreto di Dio.
Nel tufo il divino?:Ma ebbe terrore di usufruire del potere sconfinato, fino al giorno in cui il colera non fu venuto a infettare la Città. Allora il Rabbino, evadendo dalla sua condizione umana, volle contagiarsi dell’epidemia, entrare nell’essenza minerale della pietra, diventare una sorta di tufomagnete o tufospugna che assorbisse tutta l’infezione, che la eliminasse dalla città sofferente. La fede nel suo Signore del roveto ardente lo fece restare dentro la sua terrestrità, la sua mente amorosamente desiderosa di conoscere rinunciò alla conoscenza totale e usò soltanto una parcella del proprio potere per trasformarsi in tufo e andare a giacere per secoli nella cava di pietra sedimentaria.
Il paradosso:Un pezzetto di tufo conoscerebbe dunque il nome di Dio e potrebbe trovarsi oggi nel muro di una casa o tra i gradini di una scaletta d’accesso a una corte.
Se da quel tufo, e per inconosciuti sentieri, il nome di Dio fosse giunto anche ai fichidindia e ai vasi di terracotta, al basilico, ai legni delle porte, ai portelli di ferro che chiudono le cisterne, allora noi saremmo circondati dal vero nome di Dio, senza però conoscerlo, e questo sarebbe una presenza-assenza che rende angeliche le cose e noi – gli esclusi.
IL SOLETANO:
La cupola della Guglia dell’Assunta quasi si perde in alto, tra le nuvole.
Lì c’è una stanza di ventiquattro finestre aperte su tutta Soleto.
Il filosofo naturalista Matteo Tafuri, speculando sull’eros conoscitivo, in una notte di sogni e di visioni, fecondò col suo seme il tufo della stanza. Furono homunculi dilaniati dal desiderio di conoscere la bellezza della luce; composti di acqua pleistocenica e di sabbia, di filosofico umore e di memoria elementale, corsero avidi a compulsare i volumi dell’immane biblioteca del Soletano, a osservare le sfere cave in cui si studiavano le metamorfosi della materia . . . . .
* * * * * * *
“. . . . . Homunculus che danzo nei tuoi sonni
(calvo il mio capo, a meno d’una treccina colore del rame)
mio Alchimista,
mondo che ancora non conosco,
mondo come rosa bruna e petali bulinati di segni:
Homunculus che sono cieco
non vedo la rosa bruna, non i petali di segni –
questo il tuo dono, Alchimista?
cieco il tuo sonno?
– ma avverto il bruno profumo di rosa,
le sette dita delle mie mani percorrono
il cerchio di sale del tuo sonno –
poi, di là . . . . . che cosa?
È una buia caverna il tuo sonno, Alchimista.
(Mi muovo, trascino con me il cordone
ombelicale che mi lega alla pietra tufacea,
giungo fino al cerchio di sale, non oltre).
Che danzo nei tuoi sonni ascolto
(orecchie senza padiglione) ascolto
le parole del silenzio, dell’acqua pleistocenica,
dell’assenza della luce . . . . .”
Le Americhe la chiamavano con i gemiti degli indios macellati.
“Quale Dio permette questo?”
Aveva studiato con ardore i dialoghi platonici, le opere senechiane, i trattati di Niccolò Tartaglia, la Biblioteca di Fozio Patriarca, il de Perspectiva pingendi di Piero della Francesca, gli Essays di Bacone –
Un vento luttuoso le aveva recato notizia del Titicaca rosso di sangue, del Cuzco saccheggiato, delle assisi teologiche che stabilivano que no pertenece el alma a los indios.
Figlia di terre escluse e subalterne anche lei, aveva fatto un solo fascio di tutta la sua cultura europea, di tutto il suo orgoglio europeo, di tutto il suo europeo slancio di proselitismo – appiccandovi il fuoco.
Si chiamava Estrella de Sal il galeone sul quale s’imbarcò. In uno scontro coi corsari al largo delle Azzorre s’ebbe una pallottola nel ventre.
Il suo corpo fu gettato nell’Oceano – Santa Irene (forse) de los indios y de las aguas ciegas.
IL TAURISANESE:
I
Nascere in una provincia estrema dell’Impero. Maturare la propria mente all’astro intermittente delle visioni e dell’azzardo speculativo.
Viaggiare l’Europa.
Colmare le pagine di linee di scrittura ogni volta che ‘l sole rotante mostra la sua faccia di luce. Sedere sotto le navate di San Petronio o di Notre Dame de Paris perché più libero e ardito il pensiero edifica lì un sistema dell’universo panteista e materialista.
Diventare fuoco in un giorno qualsiasi a Tolosa.
Si chiamava Giulio Cesare Vanini, da Taurisano.
II
Il filosofo fu nel centro del fuoco maligno.
La luce del rogo: era nera! Gli Inquisitori non avevano che sentenziato in piena servitù alla morte e in negazione del pensiero.
Il filosofo lo sapeva.
Avanzò nella scoperchiata fornace tolosana e fu nel centro del fuoco bruttante. Il filosofo divenne una maschera d’oro, il fuoco mordeva e quel gioiello resisteva alla rabbia.
Il Taurisanese vide l’assedio, gli artigli del buio travestito in fiamma. Guardò in alto, vide il sole nero da cui originava il fuoco che lo avvolgeva in spirali.
Poi egli fu una pietra che diventò incandescente al tocco del fuoco e fu capace di scagliarlo indietro, il fuoco buio e sudicio.
– Resistenza all’imperio del buio travestito in luce il Taurisanese tentò d’essere. –
Poi egli fu un libro e una biblioteca e molte biblioteche. Il fuoco divampò, opaco e servo, distruttore senza remissione.
Il filosofo tentò d’essere un giocattolo d’oro, complicatissimo per viti e ingranaggi e ruote e vele direzionali: avvezzo come i suoi conterranei di Terra d’Otranto all’immaginifico, aveva concepito il desiderio ultimo del volo, giocattolo filosofo che moriva, fatto carne assalita dal fuoco, lui pensiero infuocato, corpo arso sul rogo e “cercai il fuoco che chiarifica”, pensò, “quiddhu ca me ‘ddhumàu, e stutàu quiddhu ca nu lucescìa inthru de mie”.
Moriva col metodo del rogo inflitto ad atei ed eretici. Il fumo stagnò nero all’angolo della piazza; qualcuno tra la folla schioccò la lingua, soddisfatto. Riprese il vociare dei mercanti per richiamare clienti.
III
Il filosofo disse: ho sognato la pietra ed era un corridoio forse senza fine e le pareti erano pietra e la mia mente, che aveva la forma di un vascellopirata, navigava nell’atmosfera densa del corridoio-pareti-di-pietra, la mia mentevascellopirata non toccava niente (né il pavimento, né il soffitto, né le pareti), ma navigava diritta, sospesa, colma di diecimila occhi che guardavano ovunque all’intorno, con piratesca avidità e in aspettazione.
IV
Il filosofo disse: ho sognato la pietra ed era un olivo attorto e contorto, anima antica di secoli, albero vecchio vecchissimo e dentro scorreva, umidore lento, vischioso, pieno di aromi e di calori, lentissimo il mio pensiero che saliva dalla terra; partecipava dell’acqua, del legno, del fuoco solare, dell’aria lunare, delle vibrazioni della stella di Venere.
V
Il filosofo disse: ho sognato la pietra ed era una masseria dalle pareti color ocra. Le stanze erano altissime per accumulare frescura quando la Canicola scatena le sue armate. Nelle pareti, bianche di calce, erano scavate nicchie ove riporre pane, olio, conserve, farine, erbe aromatiche seccate. Prendevo un pane dalla nicchiadispensa nella camera dei miei genitori e lo spezzavo per placare la fame. Lo spezzai, ed ecco, esplose dal corpo cotto-in-fragranza del pane un astro solare, antico come gli scheletri dei pesci imprigionati nelle pietre della Terra d’Otranto.
Seppi senza dubbio alcuno che dovevo lasciarmi dettare dal mio demone che aveva le specie di sole rotante luce nonluce luce nonluce lucechiara lucebuia lucechiara lucebuia < e che risplende in coelo rei publicae philosophorum. Il mio percorse le strade dell’Europa e aveva sempre libri nella bisaccia ed erano i mattoni della libera Repubblica letteraria e filosofica.
VI
Il filosofo disse: ho sognato la pietra ed era un libro in forma di sfera (perché la terra ha la forma della sfera). Le mie mani aprivano quella sfera ricoperta di segni ed ecco, lì dentro ce n’era un’altra e dentro un’altra ancora.
Aprendo ogni singola sfera le mie mani aprivano mondi materiati di segni e, ricordo, la pietra era anche suono e immagini e fascinazione.
Grande maga capace di fascinazioni senza pari è la Natura. Nel sogno comprendevo che dovevo leggere il mio librosfera e vidi una biblioteca infinita di librisfera, capivo che la lettura e la fascinazione sono la stessa cosa, intuivo che e vedevo che ogni librosfera era canto concretizzato in pietra.
Pensai che l’universo può essere un librosfera infinito e che infiniti universi~librosfera esistono contemporaneamente e che si può passare o navigare dall’uno all’altro.
La fascinazione di leggere gli universi~librosfera mi possedeva e nel sogno viaggiavo a bordo di una galera alata.
VII
Il filosofo disse: addio, mia vita, addio. Non sognerò più i sogni di uomo e dovrò dimenticare l’ebbrezza di vivere che abita nella materia di quest’universo.
Addio, mia vita, addio, sei un libro breve che sto terminando di scrivere e che mi sta abbandonando: sarò più triste e più solo, dopo, e, non scrivendo, non esisterò più.
Exit Julius Caesar Vaninus Sallentinus – non scrivere è non essere.
Folle, sterminate folle di questuanti, zoppi, ciechi, disperati, tarantati, malinconici, storpi, moltitudini in attesa di segni divini (guarigioni miracolose, soli velati, monaci con le stimmate, statue lagrimanti sangue) gli si affollavano attorno.
Dalla Cattedrale esciva la grande Croce di argento e rubini, poi la processione dei portaturiboli (fumigava, densissimo, l’incenso), poi il segno del Santo Potere che ha facoltà di rimettere o di non rimettere i peccati, di concedere o di non concedere i feudi, di promuovere o di non promuovere la Guerra Santa.
Esciva infine l’Arca del Santo Oronzo protettore della città. Egli, immobile nel suo ieratico bendicente gesto, egli vedeva le folle. Non poteva togliere loro speranza (la sapeva vana) di vedere segni, di ricevere guarigione, di essere consolati.
Quando la notte, rinchiuso nel buio della Cattedrale, guerreggiava in astuzie verbali e concettuali con il mascherato Arcangelo inviato del Dio assente, quando innanzi a sé aveva quel turbine di vuoto e di angoscia, di mentira, quando l’Arcangelo, smascherato, taceva, pensava allora alle moltitudini aspettanti (accusava sé stesso di viltà) – con disperazione si precipitava giù dal piedistallo (al mattino trovavano talvolta la sua effigie in altro luogo della Cattedrale).
Vescovi architetti-costruttori-e-matematici facevano elevare splendide colonne avvitate su sé stesse e macchine teatrali d’oro di venato marmo di velluti attorno ad altari vuoti.
Tutta la città ribolliva di febbre aedificatoria.
Ruggero Pignatelli, diventato vescovo di Lecce, servendosi di strumenti ottici e matematici modernissimi, confermò nelle sue speculazioni notturne le conclusioni di Galileo. Sentore ne aveva avuto fin da quando in Campo de’ Fiori era stato arso vivo il Nolano (l’errore dei Padri Inquisitori era giunto al passo estremo), e, ancor prima, dopo aver letto il De l’infinito universo et mondi.
Notte dopo notte aveva osservato i lumi dell’universo animato – intelligenze vivevano oltre gli spalti della terra (ben oltre ogni eurocentrismo cattolico e accademico, dunque). Lecce stessa brulicava di sogni, migliaia di universi paralleli.
Ma occhi di infidi valletti pronti alla delazione spiavano i suoi notturni pellegrinaggi intellettuali.
Nei moti planetari l’ellisse struttura sé stessa intorno a due fuochi, di cui nero l’uno, invisibile – in notti torride di caldo canicolare e di febbre d’angoscia Ruggero Pignatelli pensò l’alter Deus, il fuoco cieco, il secondo centro, il doppio, il Dio-che-sta-di-fronte, il Velato, lo sprofondato nell’invisibilità, (il Dio suicida?), il pozzo oscuro, il sole nero, lo specchio cieco.
Questi, puramente intellettuali, gli strumenti di tortura che agivano nella sua mente esulcerata.
(Nessuno seppe mai che il Vescovo di Lecce Ruggero Pignatelli si era spento improvvisamente non nel suo sacro giaciglio, come consta dalle cronache ufficiali, ma dopo una notte di venéfici contorcimenti sul pavimento del terrazzo della Curia).
Totalmente assorta nella lettura dei libri di Giordano Bruno intuiva le campane del Rosario[1] battere l’ora meridiana.
Entrava in una sorta di trance appena cominciava a leggere la poesia di John Donne, la Scienza nuova, las Soledades di Góngora.
La fame del mezzodì attendeva ore prima di essere saziata.
Occorreva saziare per prima la fame di libri.
La possedeva la lussuria del leggere.
Rapita, la mente percorreva i labirinti dei racconti e quelli delle melodie di Carlo Gesualdo da Venosa, di Claudio Monteverdi, di Francesco Provenzale.
Nella sala-biblioteca gli armadi stracolmi di libri, l’enorme mappamondo di legno intagliato, l’albero d’olivo che, incongruo, viveva nel mezzo della biblioteca fedele compagno di lettura alla fanciulla odorosa di pensiero, fasciavano di segni e di scrittura la sua febbre di lettrice.
Esperiva estasi e rapimenti dello spirito per amore di un dio poetante, fantasticante e musicante, cultore della metafora e dell’ellissi, del nascondimento e dell’enigma.
Santa Cecilia leggeva senza sosta. Permetteva così a Lecce, illusoria città, di esistere.
Quando rinchiusi nelle loro arche Santi irregolari e semieretici attraversano i cieli canicolari della Terra d’Otranto guardando in giù vedono le rosse argille come spazio infuocato tra gli olivi.
San Basilio fa abbassare l’arca di legno di mandorlo e vetro e lapislazzuli sulla spianata dove, isolato, sorge l’Arco di Carlo Quinto.
Con la parola costruisce edifici come labirinti, una città come un labirinto. Soltanto una tenda di bianco lino lo protegge dalla ferocia del sole.
All’appuntamento si materializza anche la donna-di-arenaria che con la parola costruisce edifici come labirinti.
Sulla spianata la parola di Basilio testimonia non la presenza, ma l’assenza di Dio: una città che esiste soltanto grazie alle parole, giustificandosi di per sé stessa, sublime artificio della mente.
A gara la donna-di-arenaria costruisce con le parole la medesima città.
Il labirinto della donna-di-arenaria ingloba il labirinto di San Basilio
che ingloba il labirinto della donna-di-arenaria che ingloba il labirinto di San Basilio
che ingloba il labirinto della donna-di-arenaria che ingloba il labirinto di San Basilio
che ingloba il labirinto della donna-di-arenaria che ingloba il labirinto di San Basilio
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Fu per caso che San Rocco cominciò a raccontare al cane che caritatevole gli leccava le piaghe la storia di Sergio Velázquez, suo doppio: prete spretato ed erborista salentino, omosessuale e sognatore di libere repubbliche filosofiche, il Velázquez, accusato di immoralità, fu incarcerato nei sotterranei romani, torturato e condannato al rogo dall’Inquisitore.
Soltanto il cane sapeva che San Rocco, asceta sulla strada della santità, affondava nell’angoscia di aver smarrito l’itinerario verso il Divino, che si sentiva soverchiato dalla violenza della storia, dalla mancanza di carità dei suoi simili, dei suoi pastori; per un serissimo gioco che lo guarisse da quell’angoscia pubblicò presso un editore londinese, ma sotto pseudonimo, la storia-apologo di Sergio Velásquez.
Eremita tra aspre petraie coperte di fichidindia o fra i ruderi di masserie abbandonate, San Rocco continuò la sua ascesi di piaghe e di tristezza, pensò altri romanzi che bruciava a mano a mano ch’erano terminati – preghiera e racconto non gli davano guarigione.
Dopo la morte Santa Romana Chiesa lo elevò agli onori degli altari pur mentre mandava al rogo le poche copie pubblicate del Sergio Velázquez.
La folle generosità illusa di Carlo Cafiero che cavalca nei duemil’anni di solitudine di questo paesaggio.
L’idea anarchica irriducibile nemica dei feudatari vecchi e nuovi.
Anziani sindacalisti tristi continuano a nutrire la loro lucida ira, salgono sui trattori per parlare alla gente e tempi sono questi dominio di capitalismo assoluto.
Ma con il coltello che porta sempre nel fodero sulla coscia Carlo Cafiero deve tagliare la gola del suo cavallo rantolante sul ciglio della strada dopo secoli di cavalcate nel vento, tra le pallottole, nella canicola.
(Continuerà a piedi il viaggio, non rassegnate le affaticate scarpe, non arrese compagne fin dentro al più desolato paesaggio).
(Pena di abitare queste provincie lungo sofistici secoli nei quali si sogna una libera Repubblica mentre che imbonitori vestiti di nero apostrofano folle aspettanti, plaudenti …)
IN MARGINE ALLE FOTO DI GIACOMELLI DAL SALENTO DEGLI ANNI CINQUANTA:
Strade straripanti bambini che giocano, e voltipietre, e manipietre –
L’Europa industriale è altrove –
qui la civiltà contadina (non lo sa ancora) è sulla soglia della fine –
e dopo? – : hanno mutato abito i fascisti di ieri –
significherà qualcosa il fatto che
la Resistenza accadde altrove, ma non qui –
i Salentini cominciano l’emigrazione verso il Nord.
Si perderà la memoria, verrà il rullo compressore planetario.
Sulla soglia di casepietre gente antica come i graffiti di Grotta Romanelli
sa ancora chi è (pur segregata tra i silenzi della terra estrema) –
queste foto non suscitano però nostalgia, no –
non può esserci nostalgia per i millenni di sfruttamento
del lavoro bracciantile, femminile e infantile –
nessuna nostalgia per le epoche buie in cui dominavano
baroni e superstizione, preti e malaria –
è amore per le radici, ed è memoria.
Altrove il tempo è già ben oltre la modernità –
qui la mente deve invece pensare progetti di
liberazione, di riscatto –
difendersi da sorridenti imbonitori e dalle loro menzogne –
da questa periferia infinita[2] vi giungano dunque le fotografie di Giacomelli,
e qualche parola in margine:
discendere nei pozzi dove alberga il cattivo passato[3] –
uccidere il colorato folklore che si regala ai turisti –
dire chi vogliamo essere –
sapere che il nostro destino è soltanto nelle nostre mani –
smettere la rassegnata autocompassione, il comodo pessimismo –
pietra, mare, albero e luce siano
gli elementi della nostra identità,
magneti della memoria,
segni.
Era mattino sul presto allorché un furgoncino stracarico di donne uscì di strada e si ribaltò nella campagna, prendendo fuoco.
Le avevano reclutate, in nero, per la raccolta dei pomidoro. Le avrebbero pagate, in nero, una miseria in cambio di ore e ore di fatica dura.
Piansero le loro sorelle che lavoravano, in nero, le tomaie per le scarpe, le altre che conciavano, in nero, le foglie del tabacco, le altre ancora che raccoglievano, in nero, le olive.
Il mattino dopo, sul presto, i caporali avevano riempito di donne un altro furgoncino e le avevano condotte ai campi percorrendo la stessa statale. Le donne, vestite in nero, lavorarono fino a pomeriggio inoltrato sotto il sole cocente e, tornate al paese, andarono sùbito ai funerali delle compagne morte il giorno prima. Il nome dei caporali e dei loro padroni restò nel nero del silenzio, perché c’è bisogno disperato di lavoro, foss’anche in nero, e nessuno dice nomi né circostanze, perché il lavoro, in nero, è soltanto per chi sa stare zitto, prigioniero nel nero del bisogno di sopravvivere.
Notte sciroccale.
Isanti Medici Cosma e Damiano
sognano
di filosofi naturalisti che a loro volta li sognano.
Guardano le cave di pietra di Cursi.
Dio è quella sedimentazione del tempo della sabbia dell’acqua e dei cicli solari.
Appena intuìto questo i due Greci s’involano, a cavalcioni di macchine
volanti di legno d’olivo, nella luce antitridentina del Salento.
[1] È la Chiesa di S. Giovanni Battista (1691/1728), detta appunto il Rosario, progettata da Giuseppe Zìmbalo.
[2] Vittorio Bodini in La luna dei Borboni e altri versi.
[3] Ernesto De Martino nel suo studio sul tarantolismo salentino La terra del rimorso definisce in questo modo la secolare condizione di subalternità, esclusione e sfruttamento delle plebi contadine.
[Al termine di questo “Taccuino”, riporto i riferimenti bibliografici relativi al primo luogo di pubblicazione del medesimo:
La pietra, Via Lepsius, 6 novembre 2013; Il mare, Via Lepsius, 13 dicembre 2013; L’albero, Via Lepsius, 2 febbraio 2014; L’apologo dell’aracnide sapiente e Nel pozzo delle visioni (ma incompleto rispetto alla versione in Iuncturae) su Via Lepsius, 26 dicembre 2014; alcune parti sono inedite.