Lo sguardo dagli astri nella poesia di Antonio Prete

Bisogna abbandonare la nostra solita, comoda posizione, il nostro abituale punto di vista antropocentrico, per fare un balzo in un altrove sconosciuto, oltre le strade che quotidianamente percorriamo. Sentiamo che, oggi, chi voglia leggere la poesia di Prete, deve accettare di fare questo balzo, per il quale ci vuole umiltà e coraggio, l’umiltà di chi riconosce la piccolezza del nostro essere uomini e il coraggio di chi vuol cimentarsi con l’altrove.

Voglio precisare che non di una fuga si tratta, ma di una diversa permanenza nel mondo. La poesia continua così: “vedrai allora, in quelle lontananze, / che niente della terra è cancellato.” Prete  dà al lettore una fondamentale indicazione, ovvero che la lontananza (il pensiero va subito al Trattato della lontananza) dal mondo non è rinuncia o cedimento dinanzi al reale, ma solo una ricollocazione dello sguardo, cioè una nuova capacità di vedere le cose (“vedrai”), tutte le cose della terra, che permangono al di là del nostro crederle contingenti e transeunti, nella loro essenza di materia vivente, la cui esistenza non può venir meno, non può essere “cancellata”. Lo sguardo dislocato tra gli astri vede tutto, nulla gli sfugge, ed è uno sguardo umano, non divino, di un uomo che abbia accettato l’invito iniziale al grande balzo. Un diverso sguardo alle cose del mondo significa un uomo nuovo ancora tutto da inventare, dunque una nuova antropologia, in cui l’uomo appaia per quello che effettivamente è, un essere che vive “mentre la terra vola tra corpi celesti senza numero, punto di una galassia tra galassie in fuga” (p. 106). A una nuova antropologia non può che corrispondere una nuova visione cosmologica.

“Il grido della ferita è disarmonia / delle ellissi. L’offesa all’animale è imperfezione del cielo. / Per ogni pena terrestre, lentamente, / si scompone la geometria delle costellazioni.”

Il lettore di questo libro si abituerà a queste correspondances di baudelairiana memoria, molto presenti nelle poesie di Prete. Si tratta dell’ “universale analogia” (p. 38) che preside e regola tutte le cose (vedi anche la poesia di p. 32 intitolata Analogia, e il pensiero corre a Il demone dell’analogia).

Al “ grido della ferita”, con cui il lettore è libero d’intendere qualunque reazione al male del mondo (la guerra, la schiavitù degli uomini, il sangue versato, i migranti morti nei naufragi),  corrisponde, per analogia, una disarmonia nel mondo degli astri, all’ “offesa all’animale” (si ricordi L’ordine animale delle cose) un cambiamento delle ellissi, uno sconvolgimento dell’ordinato movimento dei corpi celesti, che riconduce il cosmo al caos. Il cielo diventa “imperfetto” (si ricordi L’imperfezione della luna), come ogni “pena”, cioè ogni turbamento della vita sulla terra, sconvolge l’ordine geometrico delle costellazioni.

La poesia, allora, stante la corrispondenza analogica, ha il compito di annullare il male perché il cosmo non diventi caos. Tutto questo probabilmente non possono farlo né l’economista né il politico né nessun altro, ma solo può farlo il poeta, cui è assegnato il ruolo originario e antichissimo di ordinatore del cosmo, entro cui l’uomo è invitato a muoversi con ben altre movenze rispetto al passato. Da questo punto di vista, non esitiamo a riconoscere nella poesia di Prete un notevole risvolto morale.

“L’indifferenza degli astri è soltanto / l’apparente fulgore dell’eterno.”

E’ la conclusione della poesia. Già si è visto che gli astri non sono affatto indifferenti al vicende della terra e che i loro movimenti non sono altro che un riflesso analogico degli avvenimenti mondani. Ora, in questa conclusione, Prete ci invita a non scambiare quanto ci appare, il fulgore dell’eterno, con l’indifferenza degli astri rispetto alle nostre vicende. In questo potremmo ingannarci. Né vale interrogarsi sulla natura dell’eterno, con la e minuscola, che in Prete non è Dio  (per il lettore credente potrebbe anche esserlo, sebbene la parola Dio non sia mai scritta), ma una dimensione sovratemporale, oltre-umana, dell’essere, l’eterno dei mondi e della materia di cui sono fatti gli universi tra i quali vaghiamo, stando “sopra questa aiuola che ci fa tanto feroci” (p. 31), scrive Prete citando Dante, Paradiso XXII, 151. Risplende l’eterno e illumina la nostra piccolezza, la nostra finitudine; ed è questa la considerazione che ci deve guidare nel nuovo approccio alle cose che la poesia propone. Solo allora la pietra fiorirà, “in accordo con siderali fioriture” (p. 34), poiché solo allora il lettore sarà in grado di vedere nella pietra non l’inerte materia, ma la sostanza vivente di cui sono fatte le cose.

[“Il Paese Nuovo” di venerdì 11 maggio 2012]

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