Taccuino di Terra d’Otranto 4. La luce

                                                       Ma dentro il sonno, dentro il sogno – regioni di luce rovesciata –  si stendeva il continente immensurabile, Spaziotempo di possibilità infinite –

     : lenzuolo dei sogni

: pagina delle ossessioni

: non-libro dell’incubo.

     Riarsi sterpi fino alla linea d’enigma della Canicola.

Una masseria isolata nella disanimata campagna – ma

scardinate le imposte, spezzata la soglia.

     . . . . .  ש א  fuoco che arde ma non distrugge,

fuoco del roveto, fuoco alchemico, fuoco dell’ellisse,

fuoco nella mente del novizio che,

un trattato di teologia aperto tra le mani,

chiude 50 volte il periplo del chiostro agli Olivetani.

Amor flammeus intellectualis –

Lecce, chiusa prigione,

col volo della mente

varcherò le mura d’aria e d’ansia.

Col volo della mente mi scaraventerò

oltre i tramonti di corrida sanguinosa

che segnano i limiti di questa lontana provincia . . . . .

     Figli dei sogni e delle visioni, non accordiamo pieno credito alla cosiddetta realtà; oppure sarebbe meglio dire che sappiamo quanto reali siano i sogni, gli incubi e i viaggi della mente, reali non meno della così nomata realtà.

     (L’esagerazione di luce profusa su queste provincie anziché illuminare chiarificando e spiegando le cose, ne sottolinea l’aspetto notturno e onirico, lunatico ed errabondo).

     Un monaco analfabeta s’aggirava tra le terrazze – scolta sul tetto della casa degli Atridi, scrutava la linea bruciata della Canicola.

     Di notte si udiva la corsa dei treni, lo scirocco era liquore nelle stanze. I bambini facevano apprendistato per imparare a sognare.

     Durante la mattinata, sbrigando le faccende di casa, le donne si dicevano l’un l’altra: «’Stanotte m’àggiu sunnata ca . . . » – cominciavano allora a raccontare – nei racconti e nei sogni notturni il mondo dei vivi abitava nel mondo dei morti.

     I bambini, assorti nel gioco, ascoltavano traverso l’orecchio sommerso e invisibile del sangue figlio di Salentine visionarie. Imparavano.

     Madonne ctonie delle apparizioni, delle scomparizioni.

     Le donne, maghe\macàre delle guarigioni e del telaio, erano dotate d’una sorta di facoltà medianiche: la rete fittissima e oltremodo sensibile dei loro nervi anticipava gli accadimenti, liberava visioni, cumulava i sogni. Il sonno raddoppiava la capacità della mente di far presa sul mondo.

     Le frequenti apprensioni delle donne erano l’inconsapevole consapevolezza della malattia e della morte.

     Sui bacini speculari degli Alìmini la lucemateria.

     Il suono della luce d’Estate era l’eco vastissima delle cicale.

Abbagliante frinire riempiva ogni luogo del tempo.

Senza finire la calura canicolare assediava di suono

lo spazio labirintico della Terra d’Otranto.

     Durante la lunga stagione olearia i nachiri e gli operai si calavano nei frantoi ipogei, in segregazione vi rimanevano per mesi.

     Nachiro – capo della squadra di operai oleari – mastro nell’uso delle mani, organo-strumento del fare e del costruire, del creare.  Con mani sapienti coltivavano l’olivo, ne lavoravano i frutti. Mani sapienti avevano scavato il frantoio, molato le macine di pietra, modellato le anfore di terracotta, intrecciato i cordami. Questa terra non fruttifica se non dopo estrema fatica. L’umiltà del lavoro strappa frutti all’avarizia di terra siccitosa, fors’anche maligna.   

     Vento del silenzio nelle stanze labirintiche della masseria.

     Ci sentivamo soggiogati dalla mistica attività orante dei monaci che avevano affrescato pareti di grotte e gravine e cappelle.

     Inseguivano la luce, il vuoto e il pensiero. Tutto o Nulla, costringevano il loro Dio a epifanie  dentro rocce intrise d’acqua e di muschio. La sapienza di quei monaci forava l’opacità del mondo, ne tentava una grafia.

     Sguardi sulle terrazze-scrigni-segreti della Terra d’Otranto.

     Santi blasfemi o agnostici, adepti di una teologia dell’assenza e dell’esclusione volavano nella buia luce tra le facciate di pietra leccese.

     È la luce, piena precoce dilagante; sono questi paesi densi di case bianche; è la necessità di sfuggire, talvolta, alla presenza della luce – il sonno della controra una delle fughe possibili, nella fresca penombra della stanza.

     Sotto la casa c’era una grande cisterna per la raccolta dell’acqua piovana che dava anche più fresco, traverso il pavimento, al sonnosogno consumato nella stanza di tufo, sul letto cui erano state tolte le lenzuola.

     Si sognava così nel tempo in cui erano sconosciuti i nomi di Calderón e di Góngora. Più tardi si sarebbe scoperta la radice comune, la lingua comune, il pensiero pensato in stanze di tufo e di calce assediate dai soli meridionali, nell’aria densa di mosche di afa di nonacqua. Calderón e Góngora, voci di Spagna, rinchiuse in libri sfogliati con avidità nelle ore lente del tempo salentino.

     . . . . . pensavamo città di pietravivente  –  –  le appoggiavamo su di un’arida piana di calcare, di luce feroce . . . . .

     L’attorto rossastro silenzio degli ulivi.

                                                                                                                            Después de los viajes è la visione delle mura delle città fondate sulla piana di terra rossa e roccia bianca affiorante. Il sole calcina gli olivi i fichi i fichidindia i mur’a secco sparsi sulla pianura salentina.

     Queste città sono concrezione in pietra del pensiero, Fàbricae edificate sopra roccia friabile permeabile all’acqua e sopra grandi caverne insotterrate.

     Ma è la luce il tema totale, la luce in tutto il suo svariare, anche quand’essa è così abbagliante da essere il buio, o è così assente da essere il buio.

     Non è il Barocco la sola anima di Terra d’Otranto: pietra, olivo, luce e argine marino materiano questa provincia lontanissima in linee essenziali, nitide.

     Il cuore dei paesi più antichi si raccoglie sollecito come la pancia della madre-matriarca e un aggrovigliato sentimento abita nella mente dei Salentini, assume talvolta le forme dell’odio o del risentimento nei confronti della loro terra (ma è per troppo d’amore).

     I paesaggi, gli umori, la luce della Terra estrema sono inoculati simili a veleno, il dialetto scende dentro la mente, lega e non lascia più.

APOLOGO DELL’ARACNIDE SAPIENTE:

     Alla Luna: mia Signora della notte, lo sapete anche Voi. Nel nulla che noi siamo, dal nulla dove noi siamo mi piace tessere parole e sognare di filare, tra atomo e atomo d’aria, tra atomo e atomo di luce, l’unico infinito filo che mi condurrà insino a Voi. Chissà se mai mi riuscirà raggiungerVi.

     Voi sorgete, πότνια, sopra gli oliveti antichissimi della Valle d’Itria e rendete infime le mie speculazioni al Vostro apparire. Sublime navigatrice percorrete spirali di vento marino e di desiderio: nel nulla in cui siamo, nulla quale noi siamo, le nostre menti si accendono per istanti brevissimi, innamorandosi del mondo. Il mondo è nulla, poggia sul nulla, è ordito labirintico teso tra un nulla e un altro nulla. A mezzo di miliardi di menti che s’accendono per istanti brevissimi il mondo guarda sé stesso e s’innamora.

     Non sono che una di quelle menti, infima e labile tra miliardi e miliardi, di Voi innamoratasi; nel mio innamoramento mordo e faccio impazzire le creature che hanno la ventura d’incontrarmi. 

     La danza:Uscire fuori dalla mente per eccesso di amore alla conoscenza e per la disperazione di non poter accedere alla conoscenza.

     Prigioniera nel labirinto che intorno a me stessa intesso, ripeto l’antica danza cretese che figura il labirinto e la vittoria, per ardite ellissi d’assalto e fuga, di sfida e di battaglia, sul Minotauro.

     Il labirinto sono io, il mostro divoratore è nel centro del mio corpo e della mia mente. Intesso bave labilissime intorno, ma è impossibile la fuga da Cnosso e, quand’anche trovata, la via d’uscita condurrebbe ad altri labirinti. Voi stessa, πότνια, compite ellissi prestabilite attorno alle danze insulse dei mortali, Voi come loro prigioniera.

     Gravante gravità dei corpi e delle menti e desiderio inenarrabile del volo!

     Il balzo di Astolfo in groppa all’ippogrifo, le màchinae volanti di Leonardo, l’evasione di Dedalo dal labirinto sarebbero soltanto sogni di sogni.

_ _ _ : Vado sognando che Voi, Signora della Canicola, percorrete le spiraliformi vie dei libri, Vi                                 perdete con piacere supremo nei labirinti dei racconti, nei palazzi di Adone, nell’Isola di Prospero, nei giardini di Alcina. Siete Voi lettrice onnivora di libri immaginifici, notturnale ispiratrice di fughe senza fine, obliqua suscitatrice di assurdi racconti del fantastico. In questo modo, seppure illusorio, potete allora sfuggire al duro carcere dell’orbita prestabilita, vagate usando le parole e il telaio della memoria sul quale la spola va e ritorna, e il filato è cangiante, audace nei disegni sempre nuovi, cercando perdendo ritrovando le tracce, sempre nuove, perché non c’è paura a navigare nel grande oceano del pensiero, senza rotta, navigando, andando, navigando . . . . .

     Lettrice e al contempo autrice di libri di contorta ispirazione, Vi guadagnate il culto adorante di personae errantes atque aberrantes per i campi della Castiglia o di visionari filosofi senz’arte né parte convinti di poter mutare le sorti della storia umana grazie alla forza del pensiero, all’amore per la conoscenza, al piacere e alla civiltà della parola.

     Figurae:Come raffigurarVi e come chiamarVi se non con provvisorie immagini, con nomi provvisori, con imprestiti da sogni altrui?  –  : Calipso, la Nasconditrice; Angelica del Catai, la Fuggitiva; Laura, la Trasfiguratrice; Miranda, l’Innamorata; Amaranta, la Sontuosa  –  : odorosa di sesso, lasciate sbranare sempre di nuovo Atteone dai cani dopo averne suscitato il desiderio, αὖλος   di mille gemiti d’amore, Voi porta della terra, fessura dei segreti, rossofico spaccato, frutto del melograno – Voi Femmina buia di Eleusi, Maga d’Oltremare, anche Rosa dai petalitenèbra, Accecatrice, Desiderata, Invocata, Eccitatrice, Labirintica, Profumata?; Ecate lunare, Signora nera, architettrice di telescopi coi quali indagare i pozzi della vertigine, architettrice del dubbio, magistra di melanconici visionari.

     Volete allora discendere o ascendere (non univoche le direzioni) con me per il mio labirintico filare, tessere, intessere, distessere? Accompagnatemi, Vi prego, addentratevi con me 

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