di Antonio Errico
Avrei potuto scrivere di Millanta facce anche leggendo soltanto gli inediti che contiene: perché tutto il resto lo ricordavo perfettamente. Invece dopo le prime cinquanta pagine ho continuato a leggere, ritrovando quel racconto intitolato L’inverno del Diciotto che rappresenta la perfezione della forma. In tutto: nel ritmo, nel lessico, nella costruzione della frase, nell’articolazione dei tempi della narrazione, nella tristezza che lo attraversa per intero ma che nel principio e nel finale si fa pacato struggimento. Ho continuato a leggere, dunque, arrivando fino in fondo, fino a quelle pagine di lucidissima malinconia, che dicono di tutta la saggezza che ci vuole, per vivere, e morire.
Quella di Piero Manni è una scrittura di passioni e di ragioni. Le passioni hanno radici affondate nel già visto, già sentito, in quello che è stato pensato, sofferto, amato. Nelle illusioni, nelle delusioni. Le passioni appartengono alla memoria, alla dimensione intima, profonda, a quello che gli accade dentro e che conforma la sua visione del mondo e della vita. Le ragioni riguardano i giorni che vive, uno dopo l’altro, uno alla volta e una volta per sempre, coinvolgono quello che gli accade intorno, che qualche volta lo entusiasma, qualche volta lo sconforta, qualche volta lo consola. Poi c’è quello in cui crede; poi ci sono le idee, che sono ad uno stesso tempo passione e ragione senza che dell’una e dell’altra si riconoscano i confini, senza che tra l’una e l’altra si faccia differenza. Quello in cui crede Piero Manni si può chiamare impegno civile, per esempio. Oppure si può chiamare solidarietà, partecipazione, responsabilità, etica, valore. Quello che ha scritto Piero Manni coincide perfettamente, gioiosamente, dolorosamente, con quello che è stato, con i suoi sogni ad occhi aperti e i suoi astratti furori, con i sentimenti, le emozioni, le commozioni che cercava comunque di celare per una coerenza con il suo essere intellettuale dal pensiero complesso, sistematico, analitico, disincantato.