Egregio Signor Direttore,
poiché la mia postilla a un articolo della “Rivoluzione liberale”, intitolato Come combattere il fascismo, ha suscitato infinite deplorazioni e proteste, credo necessarie le seguenti dichiarazioni per la pubblicazione delle quali mi affido alla Sua cortesia.
Per Carlo Delcroix, mutilato di guerra, io non posso non professare il rispetto che professo per ogni mutilato di guerra.
Per Carlo Delcroix, deputato del listone, leader della maggioranza governativa, autore di un ordine del giorno di incondizionata fiducia al duce, oggi esponente dei crepuscolari spiriti di fronda di una parte di questa maggioranza, dopo aver ceduto a tutte le lusinghe del mussolinismo, mi sono riserbato e mi riserbo la più ampia libertà di critica e di stroncatura.
Quanto al testo della mia postilla, chiunque non ne sia lettore pregiudicato, deve intendere che la definizione aborto morale non è rivolta alla persona del Delcroix, ma al suo atteggiamento politico, come ai giochetti parlamentari ed alle varie manovre di maggioranza, per mezzo delle quali gli ingenui credono di poter liquidare il fascismo.
Contro le offese personali lanciatemi col pretesto della mia postilla sto provvedendo nei modi opportuni. Con osservanza
Piero Gobetti
Subito dopo il pensiero e le argomentazioni di Gobetti vengono ribadite, con la consueta autorità e chiarezza in una lettera inviata ai giornali da Benedetto Croce. Gobetti medesimo sei anni prima, quando ha appena diciotto anni, sul numero 2 della sua rivista giovanile “Energie Nove” ha difeso Croce contro Vittorio Cian ed Ettore Romagnoli, i quali in coerenza con la loro cultura di origine positivistica, conforme ai canoni della scuola storica ed erudita, hanno denigrato il filosofo napoletano come un tedesco e un traditore (siamo nell’ultimo anno della prima guerra mondiale), solamente perché egli da dieci anni è andato dicendo che la Germania grande e geniale del pensiero e dell’arte è finita con Hegel e con Nietzsche. In realtà Cian e Romagnoli non hanno capito che Croce chiede serietà agli Italiani e addita, come fonte a cui noi dovremmo attingere per il rinnovamento della nostra cultura dopo il bagno positivistico, la parte più viva e forte del pensiero tedesco. Ma torniamo alla lettera di Croce in difesa di Gobetti. Eccola.
Caro dott. Gobetti,
ricevo, mentre mi accingo a fare una corsa a Napoli, la Sua lettera col brano di articolo del quale Ella desidera che io le comunichi la mia interpretazione.
Non conoscevo l’articolo, e, leggendo ora a mente spregiudicata il brano in questione, escludo nel modo più reciso che con le parole “aborto morale” Ella abbia inteso qualificare il Decroix. La logica del contesto vuole che per “aborti morali” s’intendano semplicemente i tentativi falliti, d’indole morale, di vari che hanno negli ultimi tempi preso la parola sulla situazione politica. Del resto non dirò del Delcroix, ma a quale uomo, ancorché nemico, si oserebbe mai rivolgere l’atroce ingiuria di aborto morale? L’enormità stessa della cosa doveva peresuadere a interpretazione diversa da quella che, leggendo in fretta e con animo preoccupato, si è potuto presentare a qualche lettore.
Tanto più escludo l’odiosa interpretazione in quanto ricordo che alcune settimane fa, essendomi incontrato con Lei nella biblioteca di Torino, mi parlò dei casi politici, ed anche dell’opera del Delcroix senza diri parola che suonasse men che riverente pel glorioso mutilato.
Faccia l’uso che crede di questa mia, e mi abbia suo:
Benedetto Croce
Le due lettere stroncarono così la congiura. A Gobetti non restò che chieder ragione ai suoi offensori.
Il primo di essi è il dott. Raffaele Nardini-Saladini, vice-direttore responsabile de “La Gazzetta del Popolo”. Questo giornale, il 4, 5 e 6 settembre del 1924, è insorto dichiarando “osceno affronto della viltà e dell’odio” l’attribuire all’on. Carlo Delcroix l’epiteto di “aborto morale“.
All’on. Manlio Brosio ed al prof. Santino Caramella, delegati da Gobetti a chiedere spiegazione al dott. Nardini-Saladini, i rappresentanti di questi, generale Eraldo Rho ed avvocato Sabino Camerano, replicano che la qualità di offeso spetta al loro rappresentato, perché l’articolo pubblicato su “La Gazzetta del Popolo”, ritenuto da Gobetti offensivo, è stato provocato dall’articolo-postilla di Gobetti medesimo su “La rivoluzione liberale” del 2 settembre. Inoltre l’offesa all’on. Delcroix colpisce anche gli altri combattenti, e quindi in proprio il dott. Raffaele Nardini-Saladini che se ne reputa glorioso superstite.
Allora Gobetti prega l’avv. Manlio Brosio ed il dott. Giuseppe Saragat di chiedere al dott. Nardini-Saladini immediata riparazione per le armi concedendogli, come atto di mera cavalleria, la scelta di esse, e lasciando impregiudicata la questione di chi dei due sia l’offeso. I rappresentanti del dott. Nardini contestano a Gobetti la facoltà di decidere chi sia l’offensore e chi l’offeso, perché non è noto come egli abbia provveduto a tutelare il suo onore in seguito alle offese ricevute con l’aggressione del 5 settembre, con un telegramma di Nicola, fratello di Carlo Delcroix e con un articolo del giornale “Il Piemonte”. Sono indicate nel verbale le parole di inizio e di fine dell’articolo. In conseguenza di ciò viene negata al Gobetti la capacità cavalleresca per risolvere immediatamente con le armi la vertenza.
I rappresentanti di Gobetti, a loro volta, ritengono del tutto intempestiva tale eccezione, in quanto la vertenza deve ritenersi iniziata col primo mandato rivevuto dall’avv. Brosio e dal prof. Caramella. Inoltre, poiché non sussiste l’offesa di Gobetti al mutilato Delcroix, come appare dalle pubbliche dichiarazioni di Gobetti medesimo, le frasi offensive del dott. Nardini-Saladini devono ritenersi come offese originali e perciò egli, perfettamente valido, deve rispondere in proprio delle offese a lui personali. Non può altresì essere considerata offesa, ma volgare aggressione da perseguirsi col Codice Penale, l’aggressione patita da Gobetti il 5 settembre. Infine questi non ha mai ricevuto il telegramma del fratello dell’on. Delcroix, e non è lettore del giornale “Il Piemonte”. Si decide tuttavia di sottoporre la vertenza ad un Giurì d’onore.
A questo punto, però, un fatto preciso, pur nella sua paradossalità, ci pare che emerga, e riteniamo di doverlo segnalare al lettore.
Il dottor Nardini-Saladini, che discute sulla propria qualità di offeso, si contraddice quando, richiesto da Gobetti di una riparazione per le armi, gli nega come avversario la capacità cavalleresca. La logica suggerisce che, se l’avversario è un incapace, allora la discussione con lui in qualunque momento è impossibile.
Il Giurì d’onore, intanto, si conclude con un lodo che, dopo un riferimento analogico a quanto è stabilito circa le sentenze dei magistrati e gli ordini militari per ciò che concerne la responsabilità dello scrittore, in merito all’espressione “simili aborti morali” del brano incriminato, presenta una pregiudiziale filologica che convalida una duplice interpretazione del brano medesimo.
Difatti le parole “simili aborti morali” precedute dalla particella con oppure dalla particella di eliminerebbero ogni dubbio, perché soltanto in tal modo l’epiteto “aborti morali” indiscutibilmente verrebbe attribuito nel primo caso ai vari modi nei quali il Gobetti crede che non si possa liquidare il fascismo, nel secondo caso all’espressione “vari Delcroix“. Diremo più sotto la nostra opinione in merito.
Il Giurì, alla fine, considerate insufficienti le spiegazioni date dal Gobetti, ritiene di non doverne portare nel campo cavalleresco lo scritto che, peraltro, può trovare la propria sanzione nel plebiscito di protesta. Inoltre al dott. Raffaele Nardini-Saladini spetta la qualità di offensore perché ad un’offesa non intenzionale verso di lui, cioè indiretta, ha ribattuto con un’offesa diretta. Tuttavia il Giurì ritiene che lo sfidato non debba allo sfidante alcuna riparazione. Per la storia, il Giurì è composto dal generale Alberto Cavaciocchi come presidente e da Demetrio Di Bernezzo e Felice Casorati come membri.
In quello stesso mese di settembre ha poi luogo l’altra vertenza Cian-Gobetti, della quale viene investito ancora una volta un Giurì d’onore.
Esso ritiene che i punti controversi siano stati esaurientemente esaminati e risolti dall’altro Giurì della vertenza Nardini-Gobetti, e delibera, perciò, di accettare le conclusioni, dichiarando chiusa la vertenza. Mette conto ricordare che l’on. prof. Vittorio Cian è stato in politica dapprima il corifeo dell’interventismo e dell’antitedeschismo piemontese, e successivamente ha guidato la riscossa piemontese contro il leninismo collettivista. Nel campo del pensiero, invece, egli ha rappresentato nel primo ventennio del secolo a Torino la cultura pedante ed accademica (si pensi ai suoi studi sul Bembo e sul Castiglione) e tanto più stopposa, quanto più ricca di senso umano è stata nella stessa città alla fine del secolo quella di Arturo Graf. Non fa quindi meraviglia di vedere il prof. Cian schierato contro Gobetti che invece ha sempre propugnato il rinnovamento del costume, della cultura, della morale e della politica in Italia.
Passando all’altra vertenza contro Giovanni Baccarini, segretario generale dell’associazione mutilati, bisogna dire che essa non merita se non una rapida citazione. Il Baccarini, difatti, si diverte ad ingiuriare Gobetti su per le gazzette ma, cambiando continuamente dimora, si rende irreperibile ai padrini del suo sfidante, l’avv. Piero Burresi ed il pittore Giovanni Costetti, i quali rimettono così il mandato al loro rappresentato, assicurandogli solidarietà politica e morale.
A questo punto cade opportuna l’analisi da parte nostra dell’espressione aborti morali che ha dato origine alla vertenza.
Il Croce nella sua lettera ha ben messo in rilievo la carica ingiuriosa della frase. Il riferimento di essa al proprio simile torna repellente ad ogni persona di buon senso, e vieppiù ad un intellettuale di prim’ordine come Gobetti che, oltre ad essere scrittore esperto e preciso, è anche abbastanza scaltro e capace di evitare il rischio dell’ambiguità, pur se talora egli utilizza e filtra nel suo lessico modulazioni diverse avvalendosi di un’abilissima tecnica di amalgama e di rifinitura. Inoltre Gobetti sa che filologia è processo conoscitivo che vuol comprendere tutto intero l’oggetto della ricerca e non è ammissibile che egli usi e organizzi distrattamente la parola ed i suoi sintagmi. Nel contesto dell’espressione, quindi, non v’è un problema di omissione o meno della particella grammaticale di o con.
Invero, secondo noi, quell’espressione si irradia dal ripensamento della nostra storia, sicché Gobetti con limpida chiarezza intellettuale prende atto nel 1924 che è inevitabile la tragedia del proletariato italiano e dell’Italia. Nella sua parola passa, essenziale e perentoria, la condanna dell’ottusità storica.
Dopo il biennio rosso (1919-1920), difatti, in seguito allo sciopero delle fabbriche torinesi nell’aprile del 1920 ed al fallimento dell’occupazione di esse nel settembre di quello stesso anno, viene meno un fenomeno che ha destato al suo nascere una speranza di rinnovamento ed un sentimento di solidarietà tra la gente. Nel Consiglio operaio di fabbrica, che Gobetti ha visto nascere accanto a Gramsci, per la prima volta nella società italiana il lavoratore ha sentito la sua dignità ed indispensabilità come elemento della vita moderna e si è rinnovato come produttore, a differenza che nel Sindacato dove l’operaio in quegli anni è stato accettato come schiavo e si è elevato in un campo puramente riformistico di utilitarismo, ma non si è rinnovato. A differenza dei suoi avversari e detrattori, a Gobetti non sfugge che quel fallimento ha prodotto i processi classisti del 1922 col seguito di condanne alla galera. In particolare a Torino ha luogo la strage di rappresaglia delle squadre fasciste di Piero Brandimarte, con uccisione ed annegamento nel Po di sindacalisti, consiglieri comunali, operai ed artigiani, e con l’incendio e la devastazione della Camera del lavoro, del Circolo dei ferrovieri, del Circolo Carlo Marx e della sede dell’Ordine Nuovo di Gramsci. Il fascismo è da due anni al potere, ma il senso storico rende persuaso Gobetti che “(…) due anni di fascismo hanno diviso definitivamente il campo degli Italiano fra cortigiani e cittadini (…)”. Quando egli scrive la postilla che ha dato origine alla vertenza, è consapevole della reazione da parte dei suoi avversari, perché non gli è ignota “(…) la natura e la psicologia degli schiavi desiderosi di non vedere dichiarata la propria schiavitù (…)”.
Giacomo Matteotti pronunzia il suo ultimo discorso il 30 maggio del 1924 e il 10 giugno viene rapito dalla banda del Viminale. Il 6 giugno Giovanni Amendola parla per l’ultima volta alla Camera. Si scandiscono così i momenti salienti della nostra storia contemporanea, che approfondiscono l’antitesi morale tra chi sta, come Gobetti, Matteotti ed Amendola, dalla parte della democrazia, della libertà e della legalità, e chi invece sta dalla parte del fascismo, della violenza e della sopraffazione. A questo punto è chiaro che la guerra al fascismo richiede una grande virtù, e pochi la possiedono, cioè la maturità storica, e non invece i giochetti parlamentari, le combinazioni della maggioranza e della Stato Maggiore, che altro non sono che atteggiamenti di compromesso, cioè aborti morali, di chi è stato educato al culto piccolo-borghese dell’onore parassitario.
Il fascismo è quindi per Gobetti lo sbocco e la sintesi dei mali e delle passività italiane. A questa conclusione egli giunge mediante un ripensamento ed interpretazione potentemente originali di tre momenti della nostra storia: 1) il Rinascimento, allorché la corte è stato l’unico centro di vita intellettuale; 2) il Risorgimento, allorché le correnti religiose romantiche sono state incapaci di creare una riforma religiosa ed investire così gli interessi popolari; 3) il riformismo economico della Sinistra, che accorda protezione doganale e sovvenzioni governative all’industria, ma non stimola le aristocrazie operaie ad attuare le proprie iniziative. Si enuclea così l’autentico problema italiano: assenza di vita libera lungo i secoli che, mentra ha fatto emergere il principio di autorità, ha soffocato il valore dell’autonomia. A sua volta nucleo di questo problema è la dottrina della diseroicizzazione del nostro Risorgimento, secondo la quale a Gobetti non interessa la cronaca dell’Unità italiana e meno che mai la solenne galleria dei suoi eroi, bensì la vita e le opere dei precursori vinti, degli eretici nei quali meglio si può intendere la nostra preparazione risorgimentale.
Ci sembra a questo punto pertinente segnalare che proprio in quegli anni, tra il 1923 ed il 1925, Croce pubblica su “La Critica” studi come Controriforma e Decadenza italiana, che poi rifonderà ne La storia dell’Eà barocca del 1929. Il filosofo intende così dimostrare, in una linea idealistica, che nel nostro Ottocento il concetto di nazione è il risultato di una ininterrotta conquista umana che però ha dovuto eliminare molteplici aporie. Non c’è dubbio, tuttavia, che una consonanza spirituale accomuna Croce a Gobetti. In solitudine morale l’uno e l’altro si immergono nel flusso vivo della storia alla ricerca ed all’analisi dei mali italiani. Ci sembra allora naturale e logico tornare alla lettera di Croce.
Gli aborti morali sono tentativi falliti, cioè azioni imperfette, perché attualizzano un pensieri viziato e distorto in un processo conoscitivo imperfetto della nostra storia.
Gobetti e Croce ci attestano che nel campo dell’indagine non v’è differenza tra critici e storici. Il critico analizza l’intuizione estetica pertinente allo spirito teorico, e lo storico l’azione volta allo spirito pratico. Tra le due fonti della conoscenza non c’è opposizione; se mai vi può essere una gradazione di quantità destinata ad essere rinvenuta dal linguista. “(…) Ogni conoscenza, per astratta e filosofica che si voglia dirla, può essere guida di atti pratici: un errore teoretico dei principi ultimi della morale può riflettersi, e si riflette sempre in qualche modo, nella vita pratica (…)”[10].
Ecco: l’espressione di Croce tentativi falliti riproduce il significato di aborti morali in quanto l’una e l’altra condannano chi, non avendo ripensato storicamente il nostro passato immanente nel presente, cioè avendo commesso un errore teoretico, non è in grado di creare e proporre nuove realtà intellettuali e nuove armonie storiche.
[10] Cfr. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari 1950, dove è rifusa una memoria letta dal filosofo nell’Accademia Pontaniana di Napoli nelle tornate del 18 febbraio, 18 marzo e 6 maggio 1900, a p. 62.
[Filologia e Storia in una vertenza cavalleresca di Piero Gobetti, in “Il Corriere di Galatina”, 7 dicembre 1974, pp. 3-4.]