di Guglielmo Forges Davanzati
Il recente Rapporto ISTAT-BES (Benessere equo e sostenibile) rilascia una fotografia attenta del mercato del lavoro italiano post-pandemia. Emergono due dati importanti. In primo luogo, nell’ultimo biennio è aumentata la povertà: si è passati da un’incidenza dell’11.4% del 2019 al 13.5% del 2020 al 14.2% del 2021.
Ne sono causa l’incremento del tasso di disoccupazione, la precarietà del lavoro – così che è in aumento il fenomeno del lavoro povero (working poor) – e il basso tasso di partecipazione delle donne. Fenomeni, questi, più accentuati nel Mezzogiorno. In secondo luogo, aumentano le diseguaglianze generazionali. I giovani fino all’età di 34 anni hanno un’incidenza di povertà più elevata degli adulti, pari all’11.1% e cresce la povertà educativa. Si diffonde infatti fra bambini e adolescenti il pericoloso fenomeno dell’abbandono prematuro degli studi che, a sua volta, si traduce in bassa qualità del lavoro e basse retribuzioni. Anche in questo caso, i problemi sono notevolmente accentuati nel Mezzogiorno.
La lunga crisi dell’economia italiana, dunque, diventa sofferenza soprattutto per i giovani e soprattutto per i giovani meridionali. Vediamo perché.
Come certificato negli ultimi rapporti SVIMEZ, il Sud del Paese cresce ormai da decenni meno del Centro-Nord. E’ fisiologico in queste condizioni aspettarsi un’elevata disoccupazione nelle regioni meridionali a fronte della quale le risposte dei governi degli ultimi decenni sono state del tutto inadeguate. A partire dalla diagnosi del problema, imputato al mancato incontro fra domanda e offerta e dunque al fatto che i ragazzi meridionali non si accontentano dei posti di lavoro messi a disposizione dalle imprese locali. Essi sarebbero cioè eccessivamente esigenti. A un esame più attento emerge che questa diagnosi non coglie affatto le dimensioni del problema, che è riconducibile semmai alle scarse retribuzioni offerte dalle imprese locali (salvo rare eccezioni, di piccole dimensioni, poco innovative, a gestione familiare).