La condizione umana nella poesia dialettale di Giuseppe De Dominicis (Capitano Black)(Parte prima)

            La graziosa plaquette, in sedicesimo, di cinquantadue pagine appena, venne pubblicata a Lecce dallo Stabilimento Tipografico Giurdignano nel 1903, due anni prima della morte del poeta. Uscì contemporaneamente con due copertine, entrambe di gusto tipicamente liberty: la prima, di colore giallino, con decorazioni floreali; la seconda, verde, con un disegno che rappresentava una figura femminile, probabile allegoria della primavera. Esso comprendeva in tutto tredici composizioni, sette delle quali, e precisamente La criazzione de l’omu, La criazzione de lu cerviedhu, Primavera, La barca scasciata, Lu carrofalu zzanguenatu, La notte de Santu Martinu e Natale, stando alla preziosa bibliografia curata da Donato Valli in appendice al suo fondamentale studio sul poeta[3], erano già apparse dal 1893 al 1902 su periodici locali, anche se a volte con varianti. Un’altra, invece, Lu ballu de li muerti, aveva visto la luce da sola, in un opuscoletto uscito l’anno prima, nel 1902, presso la Tipografia Cooperativa di Lecce. Un’altra ancora, La rosa de campusantu  (poi Le rose de campusantu),  doveva essere stata già composta (e forse anche pubblicata) da tempo alla data d’ uscita di Spudhiculature, se è vero che era citata, nel 1898, in un articolo di Giovanni Canevazzi[4], tra le poesie che doveva comprendere questo volume, allora già progettato. Solo quattro perciò, se non ci sbagliamo, erano le liriche completamente inedite: Nfacce allu Cumentu de S. Pascali, Lu cantu de la vita, Lu cantu de la Morte, Lu giudizziu universale. Queste ultime tre, d’altra parte, a detta di Francesco D’Elia[5], furono anticipate dall’autore in Spudhiculature, in quanto facevano parte di un altro poema, L’Amore de na Vergine, o Canti de l’avvenire secondo un’altra testimonianza[6], rimasto incompiuto. Lu cantu de la Morte, fra l’altro, venne pubblicato anche sul settimanale leccese “La Democrazia” il 20 dicembre 1903, contemporaneamente però all’uscita del volumetto, con una nota del direttore del giornale, Pietro Marti, nella quale si precisava che il canto faceva parte di un poemetto intitolato L’Antecristu.

              Questa, dunque, è la struttura, piuttosto composita come si vede, della raccolta che ha avuto anche una lunga gestazione, nel corso della quale ha cambiato gradualmente (e per forza di cose) la sua fisionomia. L’intenzione di pubblicare un libro con questo titolo risale infatti, come risulta dall’ articolo citato di Canevazzi, almeno al 1898, allorché De Dominicis aveva progettato di raccogliere in vari volumetti la sua produzione sparsa dividendola a seconda dei generi e dei temi. In quell’ articolo infatti l’autore informava i lettori che  il Capitano Blak, dopo la pubblicazione, che si dava per imminente, di “altri versi”, non meglio precisati, aveva in programma quella di ben sei opere: Furestere, Descorsi a sulu, Figurine e retratti, Spudhiculature, appunto, e infine Canti de l’autra vita  e Canti de l’avvenire. Ora, il solo libro pubblicato in questi anni è Canti de l’autra vita uscito, com’è noto, nel 1900, mentre Li Martiri d’Otrantu, non citati in questo articolo, apparvero nel 1902. Ma Canevazzi dava ulteriori informazioni relativamente alle singole raccolte: in Furestere dovevano confluire  traduzioni e imitazioni (da Dante, Byron, Hugo, Heine, Musset e da “molti altri”); in Descorsi a sulu, “monologhi”, cioè composizioni di tipo quasi teatrale con battute e discorsi diretti; in Figurine e retratti  le macchiette e i quadretti di genere; in Spudhiculature, che è quella che più ci interessa, “componenti varii – scriveva – non escluse certe delicate e commoventi leggende”[7]. E, a proposito di questa raccolta, citava otto poesie, solo quattro delle quali furono poi effettivamente inserite, cioè Criazione de l’omu (poi La criazzione de l’omu ), Criazione de lu cervieddu (La criazzione de lu cerviedhu ), Lu garofalu nsanguinatu (Lu carrofalu zzanguenatu ) e appunto La rosa de campusantu  (Le rose de campusantu ). 

               Come si vede, quindi, si tratta di una raccolta davvero in progress, una raccolta cioè che si va sviluppando e prende progressivamente forma e consistenza  in un periodo di almeno cinque anni, dal 1898 al 1903, e comprende, come s’è detto, poesie composte dal 1893 al 1903, cioè in un arco cronologico che coincide quasi per intero con quello della creatività dedominicisiana. Ciononostante si tratta di un libro con una sua interna coerenza e una indubbia compattezza tematica e stilistica, all’interno del quale però è possibile distinguere, abbastanza nettamente, stando alle date di pubblicazione delle singole composizioni, due fasi: la prima,  dal 1893 al 1898, che è quella  delle poesie più tradizionali, di tipo ancora tardoromantico; la seconda, dal 1901 al 1903, alla quale risalgono le liriche più  originali e innovative, che a nostro avviso devono essere annoverate tra gli esiti più alti della produzione di De Dominicis.

            Anche per questo motivo, il titolo, che in italiano significa “briciole” e, per estensione, frammenti minimi di qualsiasi cosa, non deve essere interpretato  nell’accezione limitativa di poesie minori, di poco conto, e nemmeno, come sostiene D’Elia, di  “poesie sfuse”, “di vario argomento” e “di carattere diverso”[8], ma semplicemente come poesie sparse, qui raccolte per la prima volta in base a precise  affinità di temi e di tonalità. 

            Esiste infatti un motivo conduttore del libro che accomuna le varie liriche, e in particolare quelle più recenti, ed è il tema della condizione umana. Per questo Spudhiculature  segna una svolta nella poesia di De Dominicis, in quanto è  la prima volta che l’autore si serve del dialetto non più in funzione comica o umoristica o satirica o epica o di polemica sociale, come era avvenuto nelle raccolte precedenti, ma per affrontare una tematica di tipo esistenziale. E questa è anche in assoluto la prima volta che ciò accade, più in generale, per la poesia dialettale salentina, se si eccettua il caso di Francesco Marangi il quale con la sua raccolta Lu pettaci, apparsa nel 1889, aveva superato “il modello ludico, comico, saporito, graziosamente ammiccante e ironico affidato al dialetto in poesia”[9], anche se era rimasto pur sempre circoscritto  in un ambito   tardoromantico.     

            Ma qual è la visione  della vita umana che emerge dall’ultimo libro del Capitano Black? Ebbene, il poeta dimostra di avere una concezione pessimistica e sconsolata dell’esistenza, che a lui sembra caratterizzata, oltre che da caducità e fragilità, da innumerevoli problemi di ogni tipo: fame, miseria, malattia, infermità fisiche e mentali, passioni rovinose come l’amore che può portare alla morte, rischi di ogni genere, per cui l’avventura della vita è paragonata, in un’occasione, a un navigare in alto mare in balia delle tempeste, con la morte sempre in agguato. 

            Ma incominciamo ad analizzare più da vicino questi componimenti, partendo da quelli più antichi, che poi sono quelli posti all’inizio del libro: La criazzione de l’omu (“La creazione dell’uomo”) e La criazzione de lu cerviedhu (“La creazione del cervello”). Si tratta di due composizioni, in sestine di endecasillabi,  che si ispirano al racconto biblico della creazione dell’uomo, secondo l’esempio illustre che ne aveva dato  Giuseppe Gioacchino Belli nei sonetti La creazzione der monno e Li du’ ggener’ umani[10]. Esse sviluppano il motivo delle differenze sociali e intellettive esistenti tra gli uomini sulla terra, proponendone una sia pur ironica giustificazione. Presentano  perciò entrambe, nell’ultima sestina, una esplicità “moralità”, in quanto attribuiscono queste differenze quasi fatalisticamente, ma con una sottile vena polemica a nostro avviso, al volere divino.  In ogni caso, al di là delle intenzioni gnomiche o pseudognomiche, nelle due composizioni è notevole l’icastica raffigurazione del Padreterno che si muove, come un vecchio contadino del Salento, tra capase (“brocche”), limbi (“bacini di terracotta”) e peluni (“pile”) e impasta, come un puparo  farebbe con le figurine del presepe, individui più o meno riusciti.

Nella prima, ad esempio, il Signore crea dapprima con estrema accuratezza i ricchi. E qui è interessante il riferimento a personaggi e famiglie realmente esistiti: i Rotschild, diventati poi i “ricchi” per antonomasia nel dialetto leccese, i Torlonia e i senatori Tamborrino e Martini. Poi, a causa della stanchezza sopravvenuta, diventa più approssimativo, dando vita rapidamente ai  poveri e, infine, agli storpi, ai gobbi, ai ciechi. Ecco allora rispettivamente li privilegiati, li pueriedhi desperati (“i poveretti disperati”) e infine i più sfortunati di tutti che però, secondo la fede cristiana, sono proprio i desegnati, cioè gli eletti da Dio. Questa è la sestina relativa alla creazione di questi ultimi, assai movimentata e ricca di allitterazioni:

     Quanti nde fice! Ci cadia de cquai,

tuttu de botta se ntesaa sciancatu;

n’autru curudhuliandu scia de dhai

tuzzandu a nterra rumania scubbatu;

ccert’autri, intru le scrasce iatecati

capusutta, rumàsera cecati! [11]

                                                               (p. 7)

(“Quanti ne fece! Chi cadeva di qua, / d’improvviso si alzava sciancato; / un altro rotolando andava di là / cozzando a terra rimaneva gobbo; / certi altri, gettati tra gli sterpi  / a testa in giù, rimasero ciechi”).

            Nella seconda composizione si giustifica invece, sempre ironicamente,  la differenza delle facoltà intellettive tra gli uomini ancora col volere di Dio, che con un sapiente impasto di cenere, fosforo, sego, bianchi d’uova e acqua, crea le menti migliori, poi aggiungendovi fango quelle mediocri e infine quelle che ne rimangono del tutto prive. Da qui quindi la differenza tra intelligenti, mediocri e scemi, secondo la sestina conclusiva che anche in questo caso contiene una  “moralità”:

     Dunque li prima fora quidhe menti

rosse, le megghiu. Doppu enemmu nui,

de menza manu. Ci nun ibbe nienti,

ca de dha ndosa nu nci nd’era cchiui,

fora li scemi… E dengrazziamu Diu,

ca quandu rriammu nui, nu sse furniu!

                                                                               (p.11)

(“Dunque i primi furono quelle menti / grosse, le migliori. Dopo venimmo noi, / i mediocri. Chi non ebbe niente, / perché di quella dose non ce n’era più, / furono gli scemi… E ringraziamo Dio, / che quando arrivammo noi, non si finì!”).

            Dal tono spiritoso e divertito, anche se con un sottofondo polemico, delle due creazzioni, si passa a quello patetico, di gusto tardoromantico, delle due “leggende”, inventate dal poeta. Queste composizioni sono  accomunate dal tema, un vero e proprio topos dell’età romantica, di  amore e morte, con le dovute differenze però, perché in una si tratta dell’amore di un uomo per una donna e nell’altra di un amore della madre per il proprio figlio.  Nella prima, Lu carrofalu zzanguenatu (“Il garofalo insanguinato”), balza già in primo piano il motivo della pazzia d’amore che può portare alla morte, motivo che si ritrova anche in altre poesie della raccolta. Qui infatti è narrata la storia di un re diventato pazzo a causa dell’amore non corrisposto  per una donna che gli aveva offerto una pianta di garofani bianchi e che poi si innamora di un altro. Il re allora si uccide con un pugnale e le goccie del suo sangue macchiano i fiori, che così acquistano  il nuovo caratteristico colore, bianco screziato di rosso.

            Nella seconda, invece, Le rose de campusantu, emerge il tema dell’amore di una povera madre, che passa la sua vita “morta de fame e ssazia de mazzate” (p. 23; “morta di fame e sazia di bastonate”) e che ha come unico bene il figlio. Questi però muore improvvisamente  in giovane età. Le lacrime della donna allora sulla sua tomba  hanno il potere di trasformarsi  in crisantemi:

     Comu l’acqua de celu ca se unisce

cu llu tarrienu e ppoi de ‘gne mmanera

nde spunta l’erva, l’erva ca fiurisce

quand’ete ca ccumenza primavera;

cussine de dha mamma cu llu chiantu,

ssera le rose de lu campusantu.

                                                               (p. 25)

(“Come l’acqua di cielo che si unisce / col terreno e poi di ogni maniera / ne spunta l’erba, l’erba che fiorisce / quand’è che comincia primavera; / così di quella mamma con il pianto / spuntarono le rose del camposanto”).

            Accostabile alle due “leggende”, per il tono patetico e malinconico, è La barca scasciata (“La barca infranta”), rielaborazione di una lirica del poeta russo Kozlov. Qui è descritta una barca rotta, spinta dal mare e abbandonata sulla spiaggia, dopo un naufragio. La moglie di un pescatore porta a giocare sulla spiaggia il suo bambino che, ignaro ovviamente della tragedia avvenuta, va raccogliendo fiori spuntati nella barca. Il bambino diventa così quasi il simbolo della vita che riprende e continua nonostante tutto.

            Tra le composizioni più antiche c’è pure Natale, che invece è da collegare alle due creazzioni con le quali ha in comune il tono ironico e pseudognomico. Qui il poeta, la notte di Natale, si mette ad ascoltare un dialogo tra il bue e l’asino. Il primo si lamenta del trattamento riservato ai buoi dopo aver fatto tanto bene a Gesù. L’asino invece sostiene che il Padreterno in fondo ha fatto loro tanti favori, creando tanti asini in forma umana e tanti uomini cornuti come i buoi, che poi fa arricchire. E il poeta alla fine dà ragione all’asino,  perché un uomo tanto più è fortunato quanto più somiglia a un animale. Anche questa poesia finisce con una sorta di ironica “moralità” sotto forma di epigramma:

     ― Ciucciu, hai ragione ― ni respusi ieu ―

Cristu lu sangu uesciu ha benedittu!

Fegùrate, ca fenca Sa Mmatteu

intru ll’Angeliu l’ha llassatu scrittu.

Ca nu cristianu quantu cchiù è animale,

pe lla furtuna nu sse troa l’uquale.

                                                               (p. 35)

(“- Asino, hai ragione – gli risposi io – / Cristo il sangue vostro ha benedetto! / Figurati, che finanche San Matteo / nell’Evangelo l’ha lasciato scritto. / Che un uomo quanto più è animale, / per la fortuna  non si trova l’uguale”).

[In Giuseppe De Dominicis  e la poesia dialettale tra ‘800 e ‘900. Atti del Convegno di Studi (Cavallino di Lecce, 17-19 marzo 2005), a cura di G. Rizzo, Galatina, Congedo, 2005, poi in A.L. Giannone, Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti del Novecento e oltre, Galatina, Congedo, 2009]


[1] F. BREVINI, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo, Torino, Einaudi, 1990, p. 25.

[2] M. MARTI, Per una  linea della lirica dialettale salentina,in Dalla Regione per la Nazione. Analisi di reperti letterari salentini, Napoli, Morano, 1987, p. 395.

[3] Cfr. Nota bibliografica e filologica a Giuseppe De Dominicis (Il Capitano Black),  in Letteratura dialettale salentina. Dall’Otto al Novecento, a cura di D. Valli, Galatina, Congedo, 1995, tomo I, pp. 30-36.

[4] G. CANEVAZZI, Un poeta dialettale. Giuseppe De Dominicis, in “Rassegna Pugliese di Scienze, Lettere ed Arti”, vol. XV, n. 3, giugno 1898, pp. 65-76.

[5] F. D’ELIA, Vita ed opere di Giuseppe De Dominicis (Capitano Black). Poesie edite e inedite, Lecce, Stab. Tipografico Giurdignano 1926;  rist., Galatina, Congedo, 1976, p. 99.

[6] G. CANEVAZZI, Un poeta dialettale. Giuseppe De Dominicis, cit., p. 74.

[7] Ibid.

[8] F. D’ELIA, Vita ed opere di Giuseppe De Dominicis (Capitano Black). Poesie edite e inedite, cit., p. 34.

[9] D. VALLI, Storia della poesia dialettale nel Salento, Galatina, Congedo, 2003, p. 90.

[10] In G. G. BELLI, Sonetti, a cura di G. Vigolo con la collaborazione di P. Gibellini, Milano, Mondadori, 19976, rispettivamente alle pp. 37 e 313.

[11] Le citazioni dei versi sono tratte dal vol. CAPITANO BLACK (G. DE DOMINICIS) Spudhiculature, Lecce, Stabilimento Tipografico Giurdignano, 1903.

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