Un vigneto, larga parte di fatica e di apprensioni, ospita il respiro degli dèi del sole e della terra. La materia è felice e, al contempo, soffre d’essere materia.
Gli dèimateria del vigneto si fecero musica – per bocca di un poeta di Lesbo prescrissero agli umani di piantare la vite, la madre del vino, la sacra radice che lega la terra al cantopensiero.
Graffi di fichid’india contro il cielo.
In Terra d’Otranto i cenni degli dèi sono avari, scarnificati e rari.
Nel cuore di Galatìna, sul finire di giugno, ha luogo la festa dei santi Pietro e Paolo. Luminarie si accendono davanti alla chiesa di sobri ricami barocchi.
Nella cappella sconsacrata di San Paolo vengono ad alleviare la loro ossessione i tarantati. La loro danza è morso esaltato e doloroso di saulodioniso e la loro parola visionaria è fiato di kefafebo.
Da un accumulo di secoli affiorano le angosce e i rimorsi, sono la tarantola danzante nere danze che non sanno liberare l’anima da cerchi oscuri di ignoranza e di esclusione.
Nel pavimentoאaleph di Otranto leggendaria si specchia il mondolabirinto. Passi[1].
S’alza un vento che attraversa la vigna dalle radici di terracotta e argilla.
– L’anno sarà fecondo di letture.
Sulle aeree spirali di Valle d’Itria
la pietra costruita scolpita ricamata –
nelle notturnali stanze
libri
saturnali Santi nelle campane di vetro
armadi simili a mondi
letti sconvolti dall’amore
lampade a navigare notti.
Nella luce
balconi di ferro battuto e ficus-foglie-im-
mense
ricami macramé sopra bei seni
vietati a sguardi rapinosi come
uccelli da preda.
Nel Bianco-Giardino-tra-gli-Olivi-e-Ricamato
Martina Franca, suonomateria.
I fichi, dolcissimi, fecondavano per stagioni d’incessanti letture.
ANTONIO D’AGNESE ESCE DI CASA[2]:
La vigna vecchia: Ogni mattina prestissimo Antonio d’Agnese esce di casa e va nella vigna vecchia per lavorarla. Così fu prima e dopo la prigionia in Germania.
Il rito, faticoso e ingrato, è antico e nobile. Antonio d’Agnese è un sapiente nella coltivazione della vite e dell’olivo, nella lavorazione dell’uva e dell’oliva, nelle cure dovute al vino e all’olio.
Intendiamoci: l’idillio contadino non esiste.
Antonio d’Agnese esce ogni mattina di casa e va nella vigna vecchia per lavorarla con cura e con costanza.
La giornata:Il padrone sfrutta la giornata dei suoi braccianti, l’iniqua mezzadria rende ricco il ricco possidente. Sarà diverso il futuro dei figli, pensa Antonio d’Agnese, dei figli il futuro deve essere diverso – e migliore.
Il nobile olivo, l’antica vigna si caricano di frutti perché il lavoro dà frutti e con essi la dignità di chi non è servo, ma lavorante in terre peraltro ingrate.
Lo stabilimento:La lunga stagione del lavoro nell’oliveto e nel vigneto si conclude: la raccolta delle olive, la vendemmia dell’uva.
Antonio d’Agnese esce di casa per andare allo Stabilimento dove le olive, dove le uve saranno lavorate.
Con fermezza e senza un lamento la fatica avanza fino alla sera. Poche lire di guadagno, la forza di vivere giorno dopo giorno senza subire la tracotanza dei padroni né le ingiunzioni omertose dei camorristi.
Il suo lavoro è necessario affinché l’olio e il vino nutrano il corpo e rifocillino la mente, una volta imbandita la mensa, povera o ricca che sia.
L’olivo vecchio:Come l’olivo vecchio Antonio d’Agnese attraversa le stagioni del lavoro. Soffia il vento dal mare, per anni soffiando torce attorce contorce gli olivi. Fruttificano gli olivi, le viti. Sanare il pane, mettere in tavola il vino[3]. Accade anno dopo anno.
Una lettiera fatta di canne legate insieme. I fichi, spaccati a metà, messi al sole a seccare durante il giorno canicolare.
A sera le lettiere vengono accatastate e ricoperte con un telo.
L’odore dei fichi che s’abbruniscono e induriscono all’aria della Terra d’Otranto.
Spiare il cielo per poter prevedere la grandine e andare a salvare la vigna // nel sonno spiare il cielo per poter prevedere se ci saranno delle morti nella famiglia.
Vasilicò platìfiddha,
ma ta saranta fiddha.
Saranta s’agapìsane
‘vo irta ce s’epira.[4]
Torno torno alla profumata meraviglia del basilico si serravano a sfida i quarantamila cavalieri erranti[5], ciascuno avendo coraggio e valentìa e titolo per pretendere di cogliere il profumo maravigliante della pianta dei re.
Erano convenuti Galvano di Bretagna, Andrèj Rublëv, l’antico Melquíades, il Caravaggio durante una delle sue fughe disperate, Settelune e Settesoli amanti inseparabili, don Luis de Góngora y Argote, Raimondo di Sangro principe di Sansevero, il Cavaliere dalla Triste Figura, Lisabetta da Messina, Carlo Cafiero anarchico rivoluzionario, Alessandro Skanderbeg d’Albania, Omar Khayyâm, Giacomo Matteotti, Ferdinando Francesco Gravina II principe di Palagonia
( . . . . . ) ( . . . . . ) ( . . . . . )
La sfida non era cruenta: c’erano la coraggiosa Bradamante, Ben-Atar e suo nipote Abulafia dopo aver lasciato l’azzurra Baia di Barcellona, il mago Atlante, Humphrey Bogart, ( . . . . . ), il poeta René Char coi suoi Trasparenti e altri 39.000 cavalieri erranti che si contesero la pianta regale raccontando fiabe, recitando poemi, costruendo incredibili giocattoli, fabbricando aquiloni, suonando la chitarra o l’armonica a bocca, edificando castelli con la sabbia, disegnando tutti gli alberi della terra, calcolando il numero delle anfore sepolte nel sottosuolo o inabissate nei mari.
URPFLANZE:
L’albero olivo-nell’intelletto rampollava storie-enigma e, attorno al tronco ramificatissimo, figliava labirinti di storie, storie di storie e storie da storie.
L’albero vigna-del-λόγος maturava il fragrante vino del pensiero.
Maestranze di mosaicisti tessellavano il Salento di simboli (sperati)
salvifici, i grappoli d’uva dicevano la luce.
[1] “Existe ese Aleph en lo íntimo de una piedra? Lo he visto cuando vi todas las cosas y lo he olvidado? Nuestra mente es porosa para el olvido” J. L. Borges, El Aleph.
[2] Alla memoria del mio nonno materno Antonio Livieri (1907-1977), conosciuto in paese come Antonio (figlio) di Agnese.
[3] “Guérir le pain. Attabler le vin”, René Char, Feuillets d’Hypnos, feuillet 184.
[4] In grico: “Basilico dalle foglie larghe, / (basilico) dalle quaranta foglie. / Quaranta ti amarono / venni io e ti presi”.
[5] Vedi Giuseppe Bonaviri, O corpo sospiroso.