Nella “scrittura immaginosa” di Carrieri – come la definisce Giannone – la fame, a Montparnasse, è incastonata negli occhi dei personaggi, un catalogo antropologico di caratteri unici che sembrano nascere e morire nell’arco di un giorno, appositamente per raccontarsi, appositamente per mostrarsi, nudi, nella loro miseria. Nel romanzo di Carrieri ogni storia sembra avere una propria autonomia narrativa e, al tempo stesso, costituisce un tassello di un mosaico più grande, quello di una gelida Parigi tra le cui strade ghiacciate si muove questa “coltre di corpi”, uno stuolo di personaggi che vagano come fossero uno solo, accomunati dalla fame di vita alla quale si aggrappano a stento, dissanguandosi le dita nel tentativo di restarvi avvinghiati. Le vicende di ognuno vengono filtrate attraverso lo sguardo di un io narrante che si porta dietro, si porta addosso, proprio come quelli di cui racconta, la propria fame e la mescola e la impasta con quella degli altri. È la fame dei parigini che, al mattino presto, si ammucchiano “simili a stracci l’uno affianco all’altro” nella Chiesa del Sacro Cuore nell’illusione di potersi riscaldare, così schiacciati sui banchi freddi della chiesa fredda, il braccio dell’uno che si strofina contro il braccio dell’altro, ammassati l’uno sull’altro nei cappotti logori. È la fame di Albertine, immagine indimenticabile, baluginante e sfocata come in un sogno, figura nuda, asciugata dalla malattia, con gli occhi “grigi e senza vita”, “striminzita come la miseria”, come indimenticabile è lo sprofondamento che si avverte quando la sua sorte viene rivelata nella parentesi tra le parole “povera principessa” e “tisi galoppante” che si insinuano crudeli nelle orecchie del protagonista, dolorose come proiettili. È la fame di Dominique e del suo buco nella gola, della sua bara lasciata davanti alla cappella sotto un cielo chiaro, bello e sereno, ignaro del dubbio con il quale Dominique ha chiuso gli occhi e che ora se ne sta in quella bara inchiodata da due uomini sotto il porticato: “Non so se andrò in paradiso. Lo merito o non lo merito?”. È la fame di Kid, il venditore di stoffe che mostra ai clienti la sua mercanzia che “nelle sue mani di funambolo è diventata un arcobaleno”. È la fame di Iseline. Quando Iseline entra in scena tutto il resto sembra oscurarsi. La fame di Iseline è la più vorace tra tutte: “Non so leggere. Ogni volta che ci penso mi viene voglia di strapparmi gli occhi. Quando vado al cinematografo guardo le figure e non capisco le parole”. Con le spalle avvolte nel suo scialle verde, Iseline ha gli occhi grigi e, se mai Albertine o Dominique avranno trovato la loro pace in Paradiso, il protagonista conoscerà il suo paradiso, il “suo unico momento di quiete”, scrive Giannone, in una notte in cui Iseline lo “carezza e io non ricordo più il significato di queste parole: caldo e freddo”. Ma Iseline è “una donna leggera” e la fame diviene vuoto, vuoto di lei, e invano cerca di dirsi che Iseline è “povera cosa, non sciupare i tuoi occhi a guardarla”.
Non resta che chiudere gli occhi. Intorno Parigi dorme sepolta sotto la neve, le luci sono “lampi celesti e azzurri che sovrastano i tetti e le antenne”. Rimane la sensazione di una felicità lontana, dietro le palpebre stanche il ricordo di chi non c’è più, ma che poi, in fondo, c’è ancora, da qualche parte, nel petto. Rimane il sogno di un luogo senza fame, il più lontano possibile. “Più lontano…. Più lontano”
[“Nuovo Quotidiano di Puglia, 27 aprile 2022]