Il vero problema, come giustamente evidenziato da Forges Davanzati , non è quello di come ripartire i guadagni della crescita economica, ma come evitare che i danni della decrescita economica divengano catastrofici per la vita dei lavoratori (e dei disoccupati o non occupati). E’ necessario, suggerisce Forges Davanzati, adottare un salario minimo, in modo da evitare che l’incrocio fra domanda e offerta di lavoro si produca al disotto di un livello minimo accettabile, come avverrebbe se si lasciasse operare il mercato del lavoro in modo selvaggio. L’intervento di Forges Davanzati si chiude con un’ulteriore osservazione, e cioè la necessità di ricorrere a un’imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria, perché è lì che si nasconde una grande massa di ricchezza improduttiva.
Vorrei ora procedere oltre ciò che ha scritto Forges Davanzati. Parto da un assunto: politiche di protezione del lavoro sono tanto meno efficaci quanto più alte sono la disoccupazione e la precarizzazione del lavoro. Il motivo è evidente: se sono in molti a essere disponibili a lavorare “a qualsiasi costo” sarà molto facile per le imprese aggirare i vincoli di legge: come infatti sta avvenendo da tempo, con procedure di evasione (il lavoro in nero) ma anche, e forse in misura ancora maggiore (ma non ho dati per confermarlo) con misure di elusione, e quindi legali: partite IVA “false”, contratti locali con valore nazionale, stipulati con sindacati che una volta si sarebbero chiamati “gialli”, che hanno ricevuto una scandalosa legittimazione, e così via.
Questo non implica che non si debba lottare contro queste pratiche; però implica che se si vuole intervenire in modo efficace sui diritti dei lavoratori, e sul diritto dei non lavoratori a diventare tali, è necessario intervenire sulla domanda di lavoro, bisogna cioè che le imprese (o lo Stato) richiedano più lavoratori. E qui c’è un grosso problema: al di là dei furori ideologici di Bonomi, in una recessione le imprese sono davvero in difficoltà. L’aumento del costo del lavoro è sovente davvero insostenibile (e la riduzione del cuneo fiscale è improponibile in una situazione in cui il crescente disagio sociale richiede semmai maggiori spese da parte dello Stato, e quindi maggiori entrate). Non possiamo quindi chiedere alla generalità delle imprese di aumentare i salari o di assumere più lavoratori. Come giustamente osserva Forges Davanzati, e come sappiamo da dati storici, l’aumento della produttività ottenuto mediante compressione del costo del lavoro e maggiore sfruttamento è nel lungo periodo (ma anche nel medio) una politica suicida; ma per molte imprese questa è l’unica politica praticabile nel breve periodo.
Fortunatamente esiste una possibile via d’uscita, ed è l’aumento dell’occupazione nel settore pubblico. Insieme a un gruppo di colleghi da alcuni anni lavoro al progetto di un piano straordinario di assunzioni nella pubblica amministrazione, dell’ordine di un milione di persone. Il nostro settore pubblico è paurosamente sottodimensionato rispetto a quello dei paesi con cui amiamo confrontarci: in Francia e nel Regno Unito, paesi la cui popolazione supera quella italiana di circa il 10%, i pubblici dipendenti sono quasi il doppio. Questo sottodimensionamento ha ovvie conseguenze, che sono sotto gli occhi di tutti, e che si possono riassumere nella notoria inefficienza della nostra Pubblica Amministrazione. Ma proprio questo ritardo costituisce un’occasione: perché un rilancio dell’occupazione, e quindi dell’efficienza, della pubblica amministrazione consentirebbe non solo un immediato aumento della domanda interna, ma se correttamente eseguito offrirebbe grandi vantaggi al sistema delle imprese, in termini per esempio di semplificazione delle procedure, di gestione degli incentivi o di formazione del personale; e anche per gli effetti che si avrebbero sulla produttività a seguito del miglioramento dei servizi ai lavoratori. (E’ bene qui ricordare che il numero di nuovi assunti nella Pubblica Amministrazione previsto dal PNRR è molto basso – il ministro Brunetta ha recentemente parlato di 800.000 assunzioni in 5 anni, ma la maggior parte sarà destinata alla sostituzione di chi andrà in pensione).
Assumere un milione di lavoratori costerebbe circa 27 miliardi all’anno. Questa cifra è facilmente reperibile (sottolineo: facilmente) mediante un’imposta sulla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane. Questa ricchezza è elevata, e molto concentrata. L’aliquota della imposta andrebbe naturalmente calcolata tenendo conto della retribuzione che si vuole corrispondere e del numero di addetti che si intende assumere; e ovviamente sarebbero auspicabili aliquote progressive e una elevata quota esente. Ma come ha giustamente ricordato Forges Davanzati, il gettito citato può essere ottenuto con un’imposta dell’1% sul solo 10% più ricco delle famiglie (che ha in media un patrimonio finanziario intorno a 1 milione di euro). Si tratta di una politica agevole da implementare e appoggiata dall’opinione pubblica, come rilevato da dati di sondaggio. Quello che manca è la volontà politica: probabilmente perché sono in molti a preferire che lo Stato non funzioni.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 10 maggio 2022]