Ti sorprende la corsa
folle d’un tempo che un traguardo incerto
quasi tocca. Trascorsi giorni ed altre
stagioni, sogni
perduti un poco tornano all’appello
del cuore se un richiamo ne risvegli
pur incerta memoria. (p. 18)
Collegato al tema del tempo che passa è quello delle stagioni. Tutte e quattro le stagioni sono presenti nella raccolta che si apre proprio con una poesia intitolata L’inverno è mite stagione. Ma poi sono la primavera, l’estate e l’autunno a prevalere. La primavera è simbolo di rinascita, e quindi anche di speranza («Notturni mari! Ma oggi la speranza / verdeggia come un sole di primavera», p. 51), ma anche di illusione e di inganno:
Al passaggio della primavera
ogni ramo fiorito o filo d’erba
si fa, nell’aspetto, ardito:
in ogni immagine delle cose
trionfa il chiaro lume della vita.
Nei fiori e nell’erba preme
una segreta gioia di stagione
e in ognuno di noi la forza fragile
di qualche tenace illusione. (p. 35)
L’estate è la stagione in cui più acuto si fa «il travaglio della vita» (p. 72). E l’aridità di quel periodo dell’anno diventa anche una condizione dello spirito:
Più intensa nell’ardore meridiano
la caduca bellezza delle cose
si mostra. Foglie e pietre il solleone
divora, e il nostro fiato. Refrigerio
non dà il freddo limone nel bicchiere
spremuto a dar sollievo, se gli accada,
del cuore all’imperante aridità. (p. 71)
L’autunno invece, per il poeta, si rivela la stagione in cui ritorna sorprendentemente l’amore:
Giunga l’autunno trepido, sospeso…
È l’amore d’autunno
trepidante per gioia o nostalgia.
Non lo neghino dolci
tremori: quieti fuochi
che la stagione ricca e strana reca
ad altre attese.
Non lo neghino
sorrisi e amati sguardi
furtivi
dentro un sospiro di malinconia. (p. 106)
Anche le fasi del giorno sono presenti nelle poesie, sempre in rapporto agli stati d’animo dell’autore. Ecco allora la mattina che ridà speranza («La mattina, svegliandoti, saluti / alla vita concesso un altro giorno», p. 20) e poi, via via: il tramonto, legato alla fase discendente dell’esistenza («il sole del tramonto cuce addosso / ai platani giganti pezze d’oro / o tuniche di stoffe monacali. / Trascorse la stagione che credemmo più felice? / Stretto al cuore teniamo il suo ricordo», p. 105); la sera, che fa riemergere i rimpianti del passato («Non più un solitario canto / s’alza nel buio della sera; / un’ombra di rimpianto / sembra s’addensi dov’era / beata la luce», p. 39); la notte, il momento preferito dal poeta che le dedica l’ultima composizione (un sonetto) della raccolta:
Notte, che la parola trasfiguri
nell’ansia e ne fai un limpido diamante,
verità cerco in te non mai gli oscuri
responsi di menzogna […]
Da te, Notte, ritorno; m’insegnasti
tu il valor del silenzio, tu la dolce
magia che al buio genera figure
e schiude sogni… (p. 116)
Accanto al tema del tempo, un altro ricorrente nella raccolta è quello della natura, dell’osservazione del paesaggio naturale, nel quale Scorrano trasferisce i suoi stati d’animo. Il paesaggio diventa cioè una manifestazione, un’espressione dell’interiorità del poeta, anche qui secondo una linea della lirica italiana che parte sempre da Petrarca. Ecco allora, accanto al sentimento del tempo, il sentimento della natura, una natura interiorizzata, descritta attraverso le sue voci, «le voci di natura» (p. 37) appunto: il cinguettio dei passeri, il trillo di un’allodola, il canto dei grilli e delle cicale, il suono delle foglie «che cadono leggere», il lamento «querulo» delle gazze e poi ancora le lucciole, le serpi, le allodole, i balestrucci, gli usignoli, (la nostra fauna più tipica, il «bestiario salentino», per dirla con Bodini).
E, ancora, oltre al tempo e alla natura, il terzo tema centrale del libro è quello dell’amore, un amore inaspettato, un «amore d’autunno» appunto, che nasce cioè nell’età avanzata e che per questo motivo è ancora più sorprendente. E qui, all’interno della raccolta, si può addirittura ritagliare un piccolo “canzoniere d’amore”, perché numerose sono le liriche dedicate a questo rigenerante evento, a partire dal primo incontro con la donna amata che viene rievocato in una poesia:
L’incontro fu – ricordi? – per una questione di lavoro
che presto si mutò in discorso
esitante con parole diverse.
Restammo, ciascuno
attento alla difesa… (p. 57)
E in alcune composizioni la figura femminile assume quasi aspetti salvifici alla maniera stilnovistica (e montaliana). Si veda, ad esempio, In un remoto angolo del mondo, dove sembra di scorgere stilemi preraffaelliti nell’immagine della donna che cura amorosamente i fiori del «piccolo giardino»:
Il piccolo giardino poche piante ha vedute
così teneramente d’affetto circondate.
D’una pensosa donna conosce il delicato
scorrere sui suoi petali che, sotto le sue mani,
nel boccio ancora chiuso sente fiorire e splendere,
bello di sua bellezza il fiore del domani. (p. 114)
Ovviamente in tutte le poesie della raccolta compaiono riflessioni esistenziali, non di tipo metafisico, ma legate anche qui all’io del poeta, al suo vissuto, alla sua esperienza di vita. Quindi, emergono via via il senso di incertezza per il futuro, i rimpianti, i ricordi di parenti e amici scomparsi, i sogni, le illusioni. A questo proposito, mi piace citare Dove conduce il sogno, una delle più riuscite della raccolta, basata su una variante del topos dell’ubi sunt:
Dove conduce il sogno? Dove la quieta
umida, ombrosa notte ne rischiara
gli enigmi o il buio d’insignificanza?
Dove conduce lo strido
improvviso del cuore,
l’inspiegabile grido
dalle muraglie dell’eternità
ripercosso, ridetto, ricadente
negli indistinti suoni
dei suoi alfabeti? (p. 47)
Si tratta, insomma, come si sarà capito, di una poesia di tipo prevalentemente intimistico, legata alla sfera personale dell’autore, anche se non mancano aperture sulla realtà attuale, osservazioni su certi sconvolgenti fenomeni del nostro tempo, come le migrazioni, mai descritte realisticamente ma filtrate attraverso il mito, come quello di Palinuro, il nocchiere di Enea, a cui sono dedicate alcune composizioni:
Gente in fuga sulle onde, lo stupore
negli occhi dei bambini, la tremenda
angoscia per la sorte del domani.
Palinuro perì. Quale poteva
aver trovato strada, quale porto
aveva per lui solo acceso i lumi?
A lui mostrato aveva nuove stelle? (p. 46).
E non manca nemmeno una poesia dove si trova un riferimento al terribile flagello della xylella, anche questa vista attraverso figure mitologiche (le Furie, Enea, Lavinia, le Arpie):
Terra d’Enotria, verdeggiò
nelle tue zolle l’ulivo;
ora lo insidia un oscuro
male, che succhia la linfa
sua, d’oro, e ne asciuga le vene (p. 93).
Oltre che dal mito, queste poesie sono filtrate anche dalla memoria letteraria dell’autore. E qui emergono le predilezioni del critico Scorrano. A volte si tratta di calchi veri e propri, soprattutto danteschi, come «(poi di sua preda mi coperse e cinse)» (p. 17) e «lo maggior corno de la fiamma antica» (p.22), oltre al verso in epigrafe : «… ma dimmi, e come amico mi perdona». A volte, invece, si tratta di rimandi, più o meno mascherati, a Petrarca («Mentre pensoso ripercorri vie / note…», p. 25, che richiama «Solo et pensoso i più deserti passi / vo mesurando…»). Ma dall’autore del Canzoniere riprende anche certi ossimori magari attraverso la mediazione novecentesca di Umberto Saba («Se dolce pianto e doloroso riso», p. 28; «dolce amarezza e insiem dolcezza amara», p. 60). All’Ariosto è dedicato un omaggio per i cinquecento anni dell’Orlando furioso («In selve metropolitane / Angelica fugge, a distesa / gridando…», p. 30). Il riferimento a Palinuro rimanda a Virgilio, ripreso nel Novecento da Giuseppe Ungaretti nella raccolta La Terra promessa. Di Eugenio Montale riprende certi termini come «balestrucci», p. 27, mentre nei versi «Netta, talvolta, l’ombra nostra stampa / un vivo sol sul fondo d’una strada. / Non curiamo la sagoma leggera», p. 29) riecheggia il celeberrimo “osso breve” Spesso il male di vivere ho incontrato: «e l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro!».
Non mancano nemmeno i riferimenti alla pittura, come in Schizza al bagliore, una vera e propria ekfrasis del famoso dipinto di Lorenzo Lotto, L’Annunciazione, di cui Scorrano mette in rilievo acutamente la straordinaria nota “realistica” e l’ambientazione domestica:
… Lorenzo
Lotto vedesti il tremore
solo d’una trepida vergine,
d’una Maria spaventata. (p. 36)
Per finire, qualche osservazione di tipo tecnico-formale. Si tratta, come s’è accennato, di una poesia di tipo discorsivo, colloquiale, affidata, ad esempio, più alle comparazioni che alle analogie, che caratterizzano la poesia “pura”, la lirica novecentista. Anche il lessico è complessivamente comune, a volte ci sono addirittura tracce del parlato, anche se non mancano termini più ricercati (sbaldore, pugnello, scialbano, vivagno, ecc.).
Dal lato metrico, siamo quasi sempre davanti a composizioni con schemi metrici liberi, ad eccezione di sei sonetti. La maggior parte delle composizioni sono composte da una sola strofa, ventitré da due strofe e due soltanto da tre strofe. Le strofe, a loro volta, vanno da due soli versi (p. 63) a diciannove (p. 36).
I versi infine sono di varia misura. Si va da quello composto da una sola sillaba («Qui», p. 85), ad altri di due, di tre sillabe, fino ad arrivare a versi più lunghi dell’endecasillabo classico e a versi doppi. Siamo nell’ambito, insomma, della libertà metrica proclamata dalla poesia del Novecento, anche se, come ho detto, non mancano sei impeccabili sonetti, a dimostrazione della scaltrita competenza tecnica di Scorrano, che si nota, d’altra parte, anche nell’uso di espedienti retorici come gli enjambements, nonché dei versi cosiddetti ‘a scalino’.
[Presentazione del vol. di Luigi Scorrano, Scritture feriali. Poesie 2015-2016, Tuglie, 2 maggio 2017; poi in A. L. Giannone, Scritture meridiane. Letteratura in Puglia nel Novecento e oltre, Lecce, Edizioni Grifo, 2020]