Libri “profondi” per indagare la conoscenza del “profondo”

Nei trentacinque anni che sono passati da quando è uscito il libro di Livolsi, è accaduto anche di più. Immagini e suoni hanno elaborato un altro universo culturale, verso il quale non si può avere assolutamente nulla in contrario per il semplice fatto che le forme e gli strumenti dell’informazione, della formazione, della cultura, evolvono in continuazione. Per fortuna. Ma i dati Istat dicono che  qui, dove ebbe origine il pensiero  e  maturò  la parola di Quinto Ennio,  Leonida, Livio Andronico, Marco Pacuvio, Antonio Galateo, Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Tommaso Fiore e il figlio Vittore, qui, dove c’erano accademie e monaci sapientissimi, dov’era favolosa Magna Grecia, dove “Pitagora dedusse il numero:/principio e fine/ d’ogni congiunzione di pensieri,/luce di fede/ e musica/ di navigati mappamondi”, come scrisse una volta Bruno Epifani, dove lo Stupor Mundi diede concretezza alla fantasia di un castello misterioso, qui si legge poco. Probabilmente non è più nemmeno il caso di tentare di capire il motivo. Non si può nemmeno escludere che i non lettori possano trovare una giustificazione culturale ed esistenziale nei versi finali di “Er mercato de piazza Navona”, un sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli,  che dicono così: “Li libbri nun zò robba da cristiano: fiji, pe carità, nu li leggete.”

Probabilmente sarebbe opportuno chiedersi, invece, che cosa leggono coloro che leggono, perché a determinare la differenza non è la quantità ma la qualità.    

D’altra parte, può darsi pure che avesse ragione Gustave Flaubert quando in una lettera a Louise Colet,  scriveva: comme l’on serait savant, si l’on connaissait bien seulement cinq à six livres; come saremmo colti se conoscessimo bene soltanto cinque o sei libri.

Allora cinque o sei libri possono bastare anche per tutta la vita. Certo, si potrebbe obiettare che cinque o sei libri siano davvero pochi. Va bene. Ma facciamo l’ipotesi che siano i seguenti: la Bibbia, l’Odissea, La Commedia di Dante, Delitto e castigo, Pinocchio, À la recherche du temps perdu. Se facciamo questa ipotesi si potrebbe arrivare a pensare che sei libri siano anche troppo. Per leggere questi sei libri, per scendere dentro di essi, per scandagliarne i significati, ci vuole una vita intera, e forse non basta.

Non è la quantità che fa la differenza. Con i libri non si può fare a peso.  Ce ne sono alcuni  di 700 pagine  (tipo certe americanate di best seller) che quando hai finito di leggerli non ti lasciano niente, e ce ne sono altri di poche pagine che ti rimangono dentro per tutta la vita. Tanto per fare un esempio: La morte a Venezia si aggira intorno alle cento.

Gli strumenti della cultura cambiano, per fortuna. Ma ce ne sono alcuni che restano essenziali. I libri sono strumenti essenziali se  si vuole scendere nelle profondità dei significati.

Forse la differenza sostanziale  determinata dalla conoscenza che viene dai libri  è proprio quella della profondità.

La comprensione autentica e l’interpretazione significativa sono la conseguenza di una discesa nelle profondità.

Se si resta in superficie si può vedere soltanto quello che appare e quello che appare può anche essere un inganno. Dalla superficie non si comprendono le cause e gli effetti dei fatti che accadono, non si rintraccia il lievito da cui sono stati generati, la situazione che li ha determinati, non si riesce a individuare la loro motivazione, nemmeno la loro giustificazione.  

Ma quanti libri siano necessari per scendere in profondità, nessuno lo può dire. Forse dipende dalla profondità del libro.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 1 maggio 2022]

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