Libri “profondi” per indagare la conoscenza del “profondo”

di Antonio  Errico

L’imbarazzo che in una scena di Cado dalle nubi prova Checco Zalone quando va a comprare un libro per Marika, affrettandosi a precisare che comunque il libro non è per lui, forse – probabilmente – qualche volta l’ha provato anche qualcuno di noi. Magari, prima di fermarsi davanti a una bancarella di libri a metà prezzo, si è  guardato intorno per accertarsi che non ci fosse qualche conoscente. Il rapporto con i libri nasconde – ancora- qualche frammento di mistero: come se leggere fosse un segno di debolezza, come se fosse il sintomo di una estraneità al mondo reale. Così quando possiamo ne facciamo a meno, e se proprio non ci riesce di farne a meno, le nostre letture le teniamo in segreto.

Qualche giorno fa, su questo giornale, Paola Ancora riportava alcuni dati Istat tra cui il seguente: il 75% dei pugliesi non legge né libri, né giornali, né riviste. Non è che il confronto con l’intero territorio nazionale possa essere di qualche conforto o sconforto, e nemmeno si può dire che il fenomeno sia recente. Il fenomeno è vecchio e invecchiando è peggiorato.

Nel remoto 1986, il sociologo Marino Livolsi curò per La nuova Italia una raccolta di saggi intitolata Almeno un libro. Gli italiani che (non) leggono.

Nell’introduzione sosteneva che leggere un libro può perfino sembrare un’attività superata dai tempi, che i mezzi elettronici erano ormai sul punto di sostituire il libro, che in un  tempo per nulla lontano immagini e suoni avrebbero scacciato le parole.

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