Un secondo argomento contro la posizione confindustriale riguarda il fatto che un regime di alti salari è anche una precondizione per elevata produttività tramite più alto rendimento dei lavoratori. Il buon senso, oltre che la teoria economica e la ricerca empirica, ci dice che, per dirla con Francesco Saverio Nitti, se i lavoratori sono pagati poco “hanno il cuore in sciopero”: lavorano male e la loro produttività ne risente.
Occorre tuttavia rilevare che la stessa proposta del Ministro Orando è criticabile perché troppo timida: non accade quasi mai, infatti, che le imprese accordino spontaneamente incrementi salariali. Appare, a tal fine, più incisiva la proposta di alcuni partiti (Sinistra Italiana e Movimento 5 stelle) di istituire un salario minimo, pari a 10 euro l’ora: strumento che esiste in altri Paesi, che contrasta le povertà e accresce la domanda interna.
Alcuni economisti, fra i quali si segnala Pietro Garibaldi (“La Stampa” del 4 aprile), per far fronte all’imminente stagflazione – la coesistenza di alta inflazione e bassa crescita – e all’aumento delle spese militari propongono il ritorno alla c.d. politica dei redditi, vale a dire la moderazione delle richieste salariali in cambio di tutele delle fasce più deboli e di controllo delle tariffe.
La ratio di questa proposta sta nella duplice convinzione che l’inflazione sia trainata dai salari e che la moderazione salariale si renda necessaria per accrescere l’occupazione e stimolare la competitività internazionale. Bassi salari, infatti, incentiverebbero le imprese ad assumere e le porrebbero nella condizione di poter applicare prezzi bassi alle loro esportazioni.
Si tratta di argomenti falsi, per le seguenti ragioni:
- E’ discutibile, sul piano teorico ed empirico, la relazione inversa fra salari e occupazione. Anzi, vi sono buone ragioni per ritenere che la relazione sia diretta. Alti salari significano alti consumi e, dunque, elevata domanda aggregata; alla quale le imprese reagiscono adeguando produzione e occupazione.
- Un’economia con alti salari, come testimonia un’ampia evidenza empirica, è un’economia con elevata produttività del lavoro. Ciò a ragione del fatto che salari elevati motivano i lavoratori e soprattutto stimolano l’avanzamento tecnico. Non a caso, una delle fondamentali cause del declino economico italiano è proprio da rintracciare nelle misure di deregolamentazione del mercato del lavoro (e di conseguente caduta della quota dei salari sul Pil) a partire dalla metà degli anni novanta.
- Anche per quanto attiene alla diagnosi sul funzionamento del canale estero la tesi di Garibaldi è sbagliata. L’economia italiana ha la sua specializzazione produttiva in beni a bassa intensità tecnologica, eccezion fatta per i comparti della meccatronica e della farmaceutica. Per questi beni, tipicamente agroalimentare e beni di lusso, il prezzo di vendita non è l’unico fattore di competitività: conta la qualità del prodotto o anche il c.d. effetto Veblen, per il quale è semmai un aumento del prezzo a stimolare maggiore domanda, data la natura escludente dei beni di lusso.
In più, la tesi di Garibaldi è criticabile anche perché considera l’aumento delle spese militari inevitabile. Tale non è e, come abbiamo documentato sulle colonne di questo giornale, non è neppure desiderabile sotto il profilo propriamente economico. In ogni caso, assunto che si tratti di spese irrinunciabili, non è affatto detto che le debbano pagare i lavoratori. Un’imposta patrimoniale potrebbe essere da un lato più efficace e dall’altro più giusta. Secondo stime attendibili, un’imposta dell’1% sulla sola ricchezza finanziaria legale del solo 10% più ricco degli italiani renderebbe intorno ai 25 miliardi.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 28 aprile 2022]