di Guglielmo Forges Davanzati
Il Ministro Orlando ha recentemente proposto alle imprese italiane di aumentare i salari in cambio di aiuti anti-crisi. Confindustria lo ha definito un ricatto, una proposta irricevibile. La difesa confindustriale si fonda su un argomento noto: in una condizione di aumento dei costi (delle materie prime in primis) gli aumenti salariali ridurrebbero la competitività internazionale delle nostre imprese, con effetti negativi a cascata sugli investimenti privati, la crescita e l’occupazione. A ben vedere, tuttavia, quello di Orlando non è né un ricatto né una proposta irricevibile, bensì di una sollecitazione minimale per far fronte alla crisi. Vediamo perché.
I salari dei lavoratori italiani, anche in virtù dell’accordo del 1993, sono sostanzialmente fermi in termini nominali da almeno un ventennio e, in termini reali, ovvero di potere d’acquisto, sono in caduta libera. Stando all’ultima rilevazione ISTAT, a marzo 2022 l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie non ha segnato variazioni rispetto al mese precedente, a fronte di un incremento del tasso di inflazione dal 2.4% al 2.5%. La stagnazione dei salari implica bassa domanda interna e, per un meccanismo che gli economisti chiamano legge di Kaldor-Verdoorn, la bassa domanda interna implica, a sua volta, un basso tasso di crescita della produttività del lavoro. Se la produttività cresce poco, le ragioni di scambio sul piano internazionale si deteriorano, dal momento che il Paese potenziale esportatore tende a specializzarsi in produzioni a bassa intensità di conoscenza a fronte del fatto che la competizione internazionale richiede sempre più beni con elevato contenuto di nuove tecnologie. Il presunto “ricatto” di Orlando si inserisce nella tradizionale avversione della gran parte delle nostre imprese verso l’avanzamento tecnologico, e ne spiega la reazione scomposta.